venerdì 26 aprile 2013

Venticinque aprile, il giorno dopo.


Ho aspettato a parlare di 25 aprile il giorno dopo, e  di proposito, perché ogni anno questa ricorrenza ci riserva delle sorprese. Ieri le tre massime autorità dello Stato hanno deposto corone in cerimonie a cui hanno partecipato quasi tutti, meno i grillini. Come volevasi dimostrare! Questa che dovrebbe essere la festa di tutti gli italiani, non per niente giorno di festa nazionale, è da sempre considerata cosa di proprietà esclusiva di una sola parte di cittadini che si sentono i depositari della storia, tendendo ad escludere chi la pensa in  modo diverso. La contrapposizione delle idee è regola essenziale di una democrazia: si discute e magari si litiga; ma si cerca una mediazione e un possibile accordo tra le parti. La contrapposizione netta che non ammette dialogo, quella sì che è pericolosa e ne sappiamo qualcosa dalle difficoltà incontrate dalla politica recente per poter eleggere i presidenti delle Camere, il capo dello Stato e quanto si stia sudando per mettere in piedi uno straccio di governo. La protesta è legittima, ma va fatta all’interno delle istituzioni, specie per chi ha ricevuto un mandato popolare, e non agitando le piazze. L’esasperazione del malcontento attraverso l’ossessionante ripetitività di malfunzionamenti al fine di creare una diffusa protesta popolare è pericolosa, perché può sfociare in violenza e su tale terreno può attecchire qualsiasi cosa diversa dalla democrazia. Il venticinque aprile deve ricordarci che uomini e donne hanno dato la vita perché  potessimo manifestare liberamente i nostri dissensi; altrimenti non resta che il coprifuoco.
Buona vita!
maestrocastello 

lunedì 22 aprile 2013

Tutte le strade portano in piazza.


Ricordo strade del mio paese che in estate percorrevo scalzo, strade lastricate di sassi levigati dal continuo camminare di uomini attaccati alla coda di un mulo diretti alla campagna, strade tutte in salita. La merda degli asini si raccoglieva nelle curve dove i ragazzi giocavano a pallone e gli escrementi delle galline lambivano gli scalini di case dal limitare troppo  basso. A giugno era tutto un pullulare di mocciosi che giocavano a bottoni, mentre nel mese di gennaio la neve saliva fino alle finestre, dentro stanze imbiancate a calce. Pure se si somigliano tutte, allora percepivo di ognuna rumori, colori e odori diversi l’una dall’altra. Strade di risse e di malumore che nelle processioni si coprivano di petali di rose, strade con piante di gerani davanti all’uscio, strade dove tirava sempre vento, strade storte, squilibrate, con le nuvole che entravano fin dentro le finestre, strade di rondini nei pressi del castello, strade assordate dalle urla del maiale che stavano scannando, strade ubriache di mosto appena fatto, strade disseminate di secchi per raccogliere l’acqua piovana, strade con tetti bassi che ospitavano stese di conserva e pomodori lasciati ad asciugare al sole. Strade avvezze ai richiami più diversi: la donnetta che dispensava latte da un bidoncino d’alluminio e s’annunciava al suono d’una campanella, il banditore Barbirotti che avvisava quando avrebbero erogato acqua nel paese, il vecchio venditore di sapone, chi raccoglieva capelli e dava in cambio “pettini e pettinesse”, il fischietto di Pietrino il portalettere che chiamava mia nonna “Cumma Mariannina”, perché era amico di famiglia. In quelle strade si svolgeva la maggior parte della nostra vita, i ragazzi facevano schiamazzi, le donne sedevano sulle scale a cucire e ricamare con l’ago e con la bocca, le liti iniziate nelle case finivano immancabilmente per la strada. Chi aveva la radio la metteva a voce alta, per far sapere agli altri che l’aveva. Gli asini di ritorno dalla campagna stazionavano davanti alle abitazioni, in attesa di essere liberati e guadagnare la meritata via della stalla che tanti avevano in grottini ubicati nella stessa abitazione. Tutte le strade, in discesa ed in salita, portavano inevitabilmente in piazza, ubicata al centro del paese e frequentata da soli uomini che passeggiavano al modo di soldati in marcia,con le mani raccolte dietro la schiena. In quelle strade è racchiusa la mia vita fino ai dodici anni e, come nei films di Fellini:  prima  schiamazzi ed ora c’è silenzio. Quelli che partirono e chi rimase a custodire ricordi che vanno scomparendo a man a mano che i nostri vecchi prendono la via che porta al cimitero. M’illudo che un giorno io possa tornare ad aprire case cadute in letargo, a risvegliare le strade rimaste deserte; a riappropriarmi di un passato che esiste ormai solo nella mia malata immaginazione.
Buona vita!
maestrocastello

martedì 16 aprile 2013

Dal santagatese all’italiano.


Come tanti santagatesi sparsi per il mondo, vivo anch’io in una città diversa dal mio luogo di nascita, Sant’Agata di Puglia, che ho dovuto lasciare anzitempo ed avevo appena dieci anni. La prima lingua che ho appreso è il santagatese puro ed anche quando eravamo arrivati a Roma negli anni sessanta, in casa si continuava a parlare il santagatese stretto. I vicini credevano che fossimo arabi e noi ce  ne infischiavamo ed anzi ci facevamo un sacco di risate. Quando si presentano alcune situazioni particolari,  mi accorgo che riesco ad esprimerle meglio se utilizzo qualche vocabolo in santagatese. Una volta che eravamo fermi nel traffico di Roma e vidi spuntare da una fila di macchine una donnetta bassa e tutta vestita di nero, alta proprio quanto una macchina; mi venne spontaneo di dire: “Da dove esce quella corchia!”. Mia moglie che pure è romana, comprese al volo la similitudine e si ammazzò dalle risate. Sono sicuro che anche agli altri compaesani che hanno lasciato il paese da molti anni riaffiorano all’improvviso termini dialettali che usavano in gioventù. Oggi, per esempio, penso alla parola che uso certe volte che esco insoddisfatto dal bagno e mia moglie mi fa: “Hai fatto?” ed io rispondo un po’ deluso: “Trozzole!”. Lei sa benissimo che penso ai cani quando fanno i loro bisogni e ci ridiamo sopra. Vedete che la lingua madre rende bene l’idea e non si scorda tanto facilmente! Altre volte mi sovvengono  parole  di un tempo, come matafone, vovla, capuzza, paroccola, sciauort, sciusciell, stiaucc, mmccuse, vrzuse, ncacaglius, o modi di dire come: chi t’è muort, chi te stra muort, chi t’ha sunet r camben a muort, eccetera, eccetera. C’è tanto da ridere.
Gli zingari che ho avuto a decine come alunni nelle mie classi hanno una lingua solo orale e c’è il rischio che possa scomparire col tempo. Per non disperdere tutta la ricchezza del nostro patrimonio linguistico dialettale, sarebbe bello raccogliere tutti i termini dialettali magari in disuso che ci vengono in mente con relativo significato in lingua italiana; mettendoli in una specie di contenitore o banca dati; in modo da creare un lascito linguistico disponibile, magari sul sito santagatesinelmondo,  e consultabile da parte di tutti. Che cosa ne dite? E’ solo un’idea che potrebbe servire, se non altro, a ricordare a noi stessi chi siamo e da dove veniamo.
Buona vita!
maestrocastello

giovedì 11 aprile 2013

Quanto costa un miracolo?


Questa è la storia vera di una bambina di otto anni che sapeva che l’amore può fare meraviglie.
Il suo fratellino era destinato a morire per un tumore al cervello. I suoi genitori erano poveri, ma avevano fatto di tutto per salvarlo, spendendo tutti i loro risparmi.
Una sera, il papà disse alla mamma in lacrime: “Non ce la facciamo più, cara. Credo sia finita. Solo un miracolo potrebbe salvarlo”.
La piccola, con il fiato sospeso, in un angolo della stanza aveva sentito. Corse nella sua stanza, ruppe il salvadanaio e, senza far rumore, si diresse alla farmacia più vicina. Attese pazientemente il suo turno. Si avvicinò al bancone, si alzò sulla punta dei piedi e, davanti al farmacista meravigliato, posò sul baco tutte le monete.
"Per cos’è? Che cosa vuoi piccola?".
"È per il mio fratellino, signor farmacista. È molto malato e io sono venuta a comprare un miracolo".
"Che cosa dici?" borbottò il farmacista.
"Si chiama Andrea, e ha una cosa che gli cresce dentro la testa, e papà ha detto alla mamma che è finita, non c’è più niente da fare e che ci vorrebbe un miracolo per salvarlo. Vede, io voglio tanto bene al mio fratellino, per questo ho preso tutti i miei soldi e sono venuta a comperare un miracolo".
Il farmacista accennò un sorriso triste. "Piccola mia, noi qui non vendiamo miracoli".
"Ma se non bastano questi soldi posso darmi da fare per trovarne ancora. Quanto costa un miracolo?".
C’era nella farmacia un uomo alto ed elegante, dall’aria molto seria, che sembrava interessato alla strana conversazione. Il farmacista allargò le braccia mortificato. La bambina, con le lacrime agli occhi, cominciò a recuperare le sue monetine.
L’uomo si avvicinò a lei. "Perché piangi, piccola? Che cosa ti succede?".
"Il signor farmacista non vuole vendermi un miracolo e neanche dirmi quanto costa... È per il mio fratellino Andrea che è molto malato. Mamma dice che ci vorrebbe un’operazione, ma papà dice che costa troppo e non possiamo pagare e che ci vorrebbe un miracolo per salvarlo. Per questo ho portato tutto quello che ho".
"Quanto hai?".
"Un dollaro e undici centesimi... Ma, sapete..." aggiunse con un filo di voce, "posso trovare ancora qualcosa...".
L’uomo sorrise "Guarda, non credo sia necessario. Un dollaro e undici centesimi è esattamente il prezzo di un miracolo per il tuo fratellino!".
Con una mano raccolse la piccola somma e con l’altra prese dolcemente la manina della bambina. "Portami a casa tua, piccola. Voglio vedere il tuo fratellino e anche il tuo papà e la tua mamma e vedere con loro se possiamo trovare il piccolo miracolo di cui avete bisogno".
Il signore alto ed elegante e la bambina uscirono tenendosi per mano. Quell’uomo era il professor Carlton Armstrong, uno dei più grandi neurochirurghi del mondo. Operò il piccolo Andrea, che potè tornare a casa qualche settimana dopo completamente guarito.
"Questa operazione" mormorò la mamma "è un vero miracolo. Mi chiedo quanto sia costata...".
La sorellina sorrise senza dire niente. Lei sapeva quanto era costato il miracolo: un dollaro e undici centesimi... più, naturalmente l’amore e la fede di una bambina.

"Se aveste almeno una fede piccola come un granello di senape, potreste dire a questo monte: Spostati da qui a là e il monte si sposterà. Niente sarà impossibile per voi". Vangelo di Matteo 17,20.

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Il sole che sorge al mattino è un miracolo,   
il giorno che dà il cambio alla notte è un miracolo
e questo cielo gravido di stelle è un miracolo
e quando mi tuffo nei tuoi occhi al mattino, 
come lo chiami, se non un grande miracolo 
che si ripete puntualmente ogni giorno; 
così quando ti do il buon giorno 
e tu mi regali il primo sorriso
della giornata.

Buona vita!
maestrocastello


martedì 9 aprile 2013

Un re senza corona.


Era la seconda nota della scala musicale, abitava proprio sotto il rigo, e per combinazione vedeva al piano di sopra un "mi" che aveva una corona grossa così. Sapete, i musicisti mettono un segno detto "corona" su certe note, per far sapere al suonatore:
-Questa nota coronata puoi tenerla lunga quanto ti pare, fin che ti basta il fiato...
Così può capitare che un mi abbia la corona, e sta bene. Può capitare che ce l'abbia un sol ma questo è spiegabile, perché è la quinta nota della scala musicale, e la quinta nota si chiama anche "dominante". E può capitare che un "re" non ce l'abbia affatto. La stragrande maggioranza dei "re" musicali non hanno mai avuto corona e non se ne sono mai lamentati con nessuno.
Ma questo re si lamentava e non ne voleva sapere.
- L'autore, - egli diceva, - mi ha trascurato indegnamente. Darò le dimissioni -.
Difatti si dimise e se ne andò. Al suo posto, rimasto vuoto, il musicista dovette mettere il segno di pausa.
Ora, quando suono quel pezzo sul mio violino, giunto in quel punto debbo fare un attimo di silenzio in ricordo del re scontento.
(Dal libro degli  errori di Gianni Rodari.)

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La gustosa storiella è istruttiva dal punto di vista musicale, quanto utile per una qualche riflessione. Domanda: un re è tale solo perché ha in testa una corona? E un monaco lo riconoscete solo dal saio che indossa? Quanti tipi sono vestiti da brave persone e invece non lo sono affatto! A tal proposito mi torna alla mente una traduzione dal latino delle scuole ginnasiali: un giorno a Erode Attico, persona saggia ed eloquente, si presentò un uomo con un mantello e la barba che gli arrivava alle ginocchia, chiedendogli denaro per il pane. Erode gli chiese chi fosse e l'uomo rispose con espressione adirata: "Perché non è evidente che sono un filosofo?". "Quello che mi è evidente - disse Erode - è una barba e un mantello; invece non mi è evidente il filosofo, almeno che tu non porti degli argomenti!". Quando i suoi collaboratori gli riferirono che l'uomo, in verità, era un impostore, un irascibile e buono a nulla; Erode disse:"Diamogli del denaro, qualunque sia il suo carattere, non perché sia un uomo costui; ma perché siamo uomini noi" e ordinò di dargli denaro sufficiente per acquistare pane per trenta giorni. 
Buona vita!
maestrocastello





mercoledì 3 aprile 2013

Che significa fare il bene del Paese?


Siamo a più di un mese dalle elezioni, io e mia moglie  abbiamo fatto un’influenza e relativa ricaduta, al mio paese ha fatto in tempo a nevicare di nuovo, un Papa s’è dimesso e…., in un batter d’occhio, ne hanno eletto un altro eccezionale, è arrivata Pasqua, Pasquetta e gita al sacco con “ l’abbacchio a scottadito” ed ancora non siamo riusciti a fare uno straccio di governo! Ogni partito s’è arroccato sulle proprie posizioni: otto punti, governo di larghe intese, accordo con nessuno e intanto l’Italia viene spernacchiata in campo internazionale; ma stiamo scherzando? Lo spread è tornato alle stelle e la gente non compra più neanche da mangiare. Ma siamo matti? Tutti tirano a riandare a nuove elezioni; magari per fare il pieno di voti: Nessuno ha compreso che con questo schifo di legge elettorale non si va da nessuna parte. Una cosa, però, l’abbiamo capita bene, che tutti si riempiono la bocca di volere il bene del Paese; ma in realtà non gliene frega niente a nessuno, badano tutti al proprio orticello. E’ un vero schifo, da destra e da sinistra; compreso i grillini: a sfasciare si fa presto, ma poi bisogna anche costruire! Non passa giorno che qualche imprenditore, costretto alle corde dai debiti con le banche e con gli strozzini, non decide di farla finita. Ma in che Paese viviamo? A fanculo Bersani, Berlusconi e Grillo! Ma lo vogliamo fare uno straccio di governo? Io li manderei tutti e tre a conclave con la consegna che non potranno uscire, fino a che non hanno partorito un qualunque governo. “Se faccio l’accordo con Berlusconi, la gente non mi vota più!”, “ Accordo con nessuno dei partiti che hanno provocato lo sfascio!”, “La sinistra non può decidere tutto; siamo la seconda forza politica del paese!”: queste sono le farneticazioni dei nostri politici. La protesta uscita dalle ultime elezioni o non è stata letta bene da nessuno o è stata interpretata male. Le persone non  ce la fanno a comprare neanche il necessario e questi giocano! La volete capire: la gente vuole che fate un cazzo di accordo! Scornatevi, spernacchiatevi; ma partorite un benedetto governo!: l’Italia ne ha bisogno, ne ha bisogno un Paese voglioso di ripartire e crescere come un tempo! Le piccole imprese, le arti, il turismo, la moda e tutti i campi in cui siamo assolutamente maestri nel mondo lo vogliono. In Italia abbiamo città d’arte come Roma, Firenze, Venezia e veniamo a sapere che Berlino ha il triplo di turisti di Roma? Ma vogliamo scherzare? A Roma c'è il Colosseo, c'è San Pietro, c'è il Papa, c'è una storia antica che i tedeschi se la sognano! Se accade tutto questo, significherà pure qualcosa? Per esempio, che la nostra politica nazionale è sbagliata! E noi ci perdiamo a litigare sud contro nord: questi sono beni che appartengono all’Italia, tanto al sud quanto al nord! Ma vogliamo scherzare! Vogliamo scherzare veramente! E le spiagge italiane dove le mettiamo? E i nostri musei d'arte? Roma, Venezia, Firenze, Pompei, la nostra moda e la nostra cucina. Se vendessimo il Colosseo agli americani, il giorno dopo Roma sarebbe invasa da tanti turisti che la  capitale italiana non saprebbe contenere. . Il povero Napolitano s’è inventato i saggi ed a criticarlo sono proprio i partiti. Benedetti, datevi una mossa! che la gente non ne può più e la pazienza ha un limite!
Buona vita!
maestrocastello