giovedì 29 aprile 2010

C'è qualcosa di buono in ciascuno di noi.


Un’anziana donna cinese aveva due grandi vasi, ciascuno sospeso all’estremità di un palo che lei portava sulle spalle.
Uno dei vasi aveva una crepa, mentre l’altro era perfetto, ed era sempre pieno d’acqua alla fine della lunga camminata dal ruscello a casa, mentre quello crepato arrivava mezzo vuoto. Per due anni interi andò avanti così, con la donna che portava a casa solo un vaso e mezzo d’acqua.
Naturalmente, il vaso perfetto era orgoglioso dei propri risultati. Ma il povero vaso crepato si vergognava del proprio difetto, ed era avvilito di saper fare solo la metà di ciò per cui era stato fatto.
Dopo due anni che si rendeva conto del proprio amaro fallimento, un giorno parlò alla donna lungo il cammino: “Mi vergogno di me stesso, perché questa crepa nel mio fianco fa sì che l’acqua fuoriesca lungo tutta la strada verso la vostra casa”.
La vecchia sorrise: ” Ti sei accorto che ci sono dei fiori dalla tua parte del sentiero, ma non dalla parte dell’altro vaso? È perché io ho sempre saputo del tuo difetto, perciò ho piantato semi di fiori dal tuo lato del sentiero ed ogni giorno, mentre tornavamo, tu li innaffiavi.
Per due anni ho potuto raccogliere quei bei fiori per decorare la tavola. Se tu non fossi stato come sei, non avrei avuto quelle bellezze per ingentilire la casa”.
(Storia Zen).

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Come ci comportiamo noi quando ci accorgiamo che un oggetto che abbiamo in casa è difettoso? Cerchiamo, se possibile, di riparare il guasto; altrimenti ci convinciamo dell’inutilità di avere ancora in casa tale oggetto e lo destiniamo al secchio dei rifiuti. Solamente se si accende il nostro led della creatività, pensiamo di destinarlo ad un uso diverso dall’originario ed è così che una bottiglia di wisky diventa un lume ed una zuppiera scheggiata può andare bene come sottovaso. Ma stiamo parlando solo di oggetti. Pensate che gli Spartani, popolo dell’antica Grecia, avevano deciso di eliminare i neonati che apparivano loro incapaci di diventare nel futuro dei bravi soldati o di generare poi altri soldati. Come vedete, non tutti la pensano come la vecchia cinese col suo vaso e la storia ci parla di anti altri vasi destinati al macero che si chiamano ebrei, zingari, omosessuali. Ha scritto il genetista Lejeune che “di tutte le città della Grecia, Sparta è l’unico popolo ad aver praticato questo spietato eugenismo ed anche l’unica cettà greca a non aver lasciato all’umanità né un poeta, né uno scienziato e nemmeno i resti di qualche monumento.” Forse gli spartani, senza saperlo, eliminando i loro neonati imperfetti o troppo fragili, hanno ucciso i loro musici, i loro artisti, i loro filosofi? Ognuno di noi ha il proprio specifico difetto. "Ma sono la crepa e il difetto che ognuno ha, a far sì che la nostra convivenza sia interessante e gratificante. Bisogna prendere ciascuno per quello che è e vedere ciò che c’è di buono in lui".
Se vi accorgete di avere un difetto, guardate sempre i fiori dalla vostra parte del prato e pensate che se son così belli a vedersi è anche merito vostro.
Buona vita!
maestrocastello

mercoledì 28 aprile 2010

l'uomo di pace.


E’ notizia di ieri l’arresto di Giovanni Degano, padrino della ‘ndrangheta calabrese, che nel salire, ammanettato, sulla volante della polizia ha salutato e ringraziato un gruppo di parenti ed amici che si disperava e lo applaudiva, urlando: “Ti vorremo bene per sempre”, “Ha fatto bene a tutti”, “E’ un uomo di pace!. Queste sono scene già viste anche in Campania, mentre viene arrestato un giovane camorrista e la gente che urla ai poliziotti: “Bastardi! Morite! Infami! Schifosi!” e succedono in altre parte del sud, dove spadroneggia quella stessa malavita che assume nomi diversi. Perché si dispera quella gente di Reggio? Ora che hanno arrestato quell’ “uomo di pace”, chi porterà loro quella pace? Non certo lo Stato! Chi darà lavoro ai figli e sicurezza a loro stessi? Non certo lo Stato! A chi andranno a bussare per chiedere l’aiutino? Per fortuna che esiste anche tanta parte di Reggio che manifesta davanti alla questura, per dire no alla ‘ndrangheta. Chiediamoci come mai siamo arrivati a questo punto? Forse sarebbe il caso che lo Stato riprenda il controllo del territorio, evitando di sbandierare qualche arresto al solo scopo propagandistico; tanto il boss continuerà a fare il prepotente nelle carceri e la sua gente a farla da padrone nella sua zona. La verità è che al Sud il feudalesimo non è mai finito ed il calabrese, campano o siciliano si sentono ancora servi della gleba dentro, convinti che per qualunque cosa ottengono, debbano comunque ringraziare qualcuno. Si dice che il paese è diviso; probabilmente non si è mai unito. Come se n’esce? Credo con l’impegno di tutti, anche di quella parte virtuosa d’Italia che non deve generalizzare taluni comportamenti mafiosi. Il Sud non può continuare ad essere solo serbatoio di voti, posto dove andare a caccia o in vacanza; va messo nelle condizioni di avere lo stesso passo del resto d’Italia. Come può realizzare il federalismo la Calabria, se non si creano prima le giuste condizioni per farlo? La gente di Reggio deve capire che stigmatizzare i comportamenti di alcuni, non significa accusare tutti i calabresi di mafia; ma serve invece ad accendere spazi di riflessione costruttiva. E mentre tutti gli italiani devono guardarsi dalla critica gratuita; i calabresi sono impegnati doppiamente per cambiare dall’interno quella cultura, appunto mafiosa di alcuni, capace di mettere la propria vita al servizio di un così detto “uomo di pace”.
Buona vita!
Maestrocastello.

martedì 27 aprile 2010

Quello che ti capita oggi, non è detto che capiterà sempre.


Un tacchino (americano) aveva imparato che ogni mattina, più o meno alla stessa ora, il padrone gli portava da mangiare. Diligentemente memorizzava tutte le piccole differenze, finché, dopo giorni e giorni, poté essere soddisfatto di aver trovato una regola infallibile: tra le nove e le dieci di mattina arrivava inevitabilmente il cibo. Al passare delle settimane e dei mesi la regola trovò sempre conferme... fino al giorno del Ringraziamento, quando il tacchino fu calorosamente invitato sulla tavola della famiglia, come protagonista dell'arrosto tradizionale.

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Questa storiella che viene descritta come il paradosso del “tacchino induttivista” serve ad attivare la nostra capacità superiore che è il pensiero. Pensare è un’attività che ci riguarda tutti e il pensiero padre di tutti gli altri è quello filosofico. La filosofia è al di sopra di ogni altro pensiero perché non si limita al tentativo di illustrare il funzionamento della realtà; ma tenta anche di spiegare perché la realtà proceda in quel modo e nel far ciò fa leva sulla ragione. Siamo tutti filosofi, perché tutti in grado di pensare; in quanto con la facoltà del pensiero ci si nasce. Perché la storiella è un “paradosso”? Il “paradosso” (dal greco: παρα - contro e δόξα -opinione) è un ragionamento che deriva da premesse apparentemente accettabili, si sviluppa per mezzo di tesi che sembrano anch’esse accettabilissime ed arriva a conclusioni inaccettabili apparentemente. Il paradosso serve per sviluppare il pensiero, per ragionarci sopra. Carmelo Bene è stato un grande maestro del paradosso in teatro, Bossi usa spesso paradossi in politica che, sulle prime ti lasciano di stucco, ma invitano poi ad una successiva discussione per capire le ragioni che ci fanno condividere parte o nessuna delle tesi-provocazione. Perché questo tacchino è detto “induttivista”? Ma perché, partendo da una serie di indizi particolari (in diversi orari del mattino il padrone gli porta da mangiare); ha stabilito, arbitrariamente, una regola di ordine universale (tra le nove e le dieci si mangia sempre!). Niente di più sbagliato! Non bisogna mai dare nulla per scontato a questo mondo, se vogliamo evitare brutte sorprese. Per vivere bene evitiamo le certezze. Le convinzioni sono per la verità le nemiche più pericolose delle menzogne diceva Friedrich Nietzche. La realtà si conosce veramente solo attraverso un’apertura senza pregiudizio e… a proposito di pregiudizi, ricordiamo che “ E’ più facile disintegrare un atomo che un pregiudizio”, parola di Albert Einstein.
Buona vita!
Maestrocastello.

venerdì 23 aprile 2010

Giù le mani dalla festa di Liberazione!


L’Italia è un paese di polemica continua. Ce lo insegnano i nostri politici che spesso sragionano sul “niente”, dando vita a scenette da mercatino rionale, in cui non si spiega, non si dibatte, non si costruisce; piuttosto si gioca solo a demonizzare l’avversario, ricorrendo spesso all’offesa personale. La nostra storia repubblicana ha smesso ch’è poco di portare i “calzoni corti”; eppure situazioni diverse se ne sono avvicendate in 150 anni. Dalla monarchia al fascismo, dalla prima alla seconda repubblica; si sono avvicendati al potere : re, dittatori, presidenti di ogni colore politico. L’offesa più in voga di ieri: “fascista” ha lasciato il posto a quella di oggi : “comunista” e tanti non avvertono che sono entrambe l’emanazione di forme assolute di governo, da non augurare a nessuno. Con l’avvicendarsi dei governi , da qualche anno, s’è andata facendo strada l’intenzione di rivisitare alcuni fatti della nostra storia nazionale, per farne riletture di convenienza. Ritenendo la festa di liberazione una ricorrenza di stampo comunista, gli si è opposta la giornata per ricordare i morti delle”foibe”; come se i morti avessero una diversa valenza. Voi direte: “ora è tutto a posto!” Nemmeno per sogno! All’approssimarsi del 25 aprile, spuntano puntuali le polemiche: un uomo politico che si rifiuta di presenziare alle “Fosse Ardeatine”, la dichiarazione di qualche alta carica dello Stato che trasuda totale distacco, una manifestazione alternativa di chi la pensa in modo diverso. Sentite la polemica appena sfornata dal web : “A Salerno cancellata la 'Resistenza' dai manifesti del 25 aprile”. In sostanza il presidente della Provincia di Salerno, Edmondo Cirielli, ex deputato di AN - oggi Pdl - e presidente della commissione Difesa della Camera, ha fatto affiggere manifesti nella città di Salerno, per il 25 aprile, in cui non si fa nessun riferimento - è l'obiezione - alla Resistenza partigiana e alla lotta al nazifascismo, ma un elogio all'esercito americano"per l'intervento nella nostra terra che ha sancito un'alleanza che ha garantito un luogo periodo di pace e di progresso economico e sociale, senza precedenti e che ha salvato l'Italia, come l'Europa, dalla dittatura comunista" (Apcom) . Questo esemplare di uomo politico moderno che si professa liberale e democratico, tenta così di rinnegare la storia, di negare il fatto che tanti suoi connazionali si siano dati alla macchia ed abbiano immolato la propria vita per garantirgli quella libertà che oggi permette a lui , da uomo pubblico che dovrebbe rappresentare le opinioni di tutti i salernitani, di comportarsi come uomo di una sola parte.
Buona vita!
maestrocastello

giovedì 22 aprile 2010

Il sogno della fantasia. (vedere il mondo comune in modo non comune).



La sorgente del fantastico ordinario è materiale, esterna, obiettiva. Dall’anima stessa degli uomini, ho immaginato di farli pensare e sentire in modo eccezionale davanti a fatti ordinari. Invece di condurli in mezzo a peripezie bizzarre, in mondi non mai veduti, in mezzo ad avvenimenti incredibili, li ho posti davanti a fatti della loro vita ordinaria, quotidiana, comune, ed ho fatto scoprire a loro stessi, tutto quello che c’è in essa di misterioso, di grottesco, di terribile. Ho messo degli uomini con una coscienza più acuta e più vasta, con un senso più raffinato e insieme quasi ingenuamente puerile, in mezzo alla loro stessa esistenza, in faccia al loro stesso mondo. Noi siamo abituati a questa esistenza e a questo mondo e non ne sappiamo più vedere le ombre, gli abissi, gli enigmi, le tragedie e ci vogliono ormai degli spiriti straordinari per scoprire i segreti delle cose ordinarie. Vedere il mondo comune in modo non comune: ecco il sogno della fantasia.
(Giovanni Papini – “Il tragico quotidiano” 1906).
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Il concetto di fantastico che è molto presente nella letteratura e nell’arte della modernità, fa parte del patrimonio di tutti i popoli, appartiene alla tradizione orale che nella narrazione mescola il reale al meraviglioso. Il mito, la leggenda sono state invenzioni necessarie di ogni popolo che ha attinto da elementi del reale, trasformandoli con quel pizzico di fantasiosità; per celebrare fatti o personaggi fondamentali per la sua storia, oppure per spiegare qualche caratteristica dell'ambiente naturale e per dare risposta a dei perché. I tempi non cambiano, infatti oggi abbiamo le “leggende urbane” o “leggende metropolitane”, storie insolite e curiose, raccontate dalla gente, che acquistano credibilità passando di bocca in bocca. Anche l'uomo d'oggi lavora con la fantasia su aspetti della realtà che lo circonda, che gli fa inventare e raccontare fatti che, spacciati per veri e creduti tali, anche se privi degli elementi fantastici e meravigliosi presenti nelle leggende popolari, soddisfano il bisogno universale di storie e rafforzano l'appartenenza ad un certo ambiente. La letteratura del fiabesco, però, ci ha sempre immerso in realtà dell’irreale, condotti “in mezzo a peripezie bizzarre, in mondi non mai veduti, in mezzo ad avvenimenti incredibili”. Eppure abbiamo tanto materiale proprio sotto inostri occhi, il mondo ordinario, di cui non riusciamo sempre a scorgere tutto quello che c’è in esso di misterioso, di grottesco, di terribile. Occorre, come dice Papini, essere persone con “una coscienza più acuta e più vasta, con un senso più raffinato e insieme quasi ingenuamente puerile, in mezzo alla loro stessa esistenza, in faccia al loro stesso mondo.” E' un pò come vedere figure tridimensionali, adoperando le tecniche consigliate; all'improvvisa vedi l'altezza e la profondità nei disegni che prima erano piatti. Occorre essere degli spiriti straordinari. Questi spiriti sono gli artisti che hanno una lente speciale, capace di immergersi nel profondo delle cose ordinarie, per scovare quanto di straordinario esiste in esse. Questa capacità l’avevano Goya e Picasso, ad esempio, che carpivano aspetti grotteschi del reale che hanno sconvolto ed entusiasmato la critica mondiale. Dovremmo sforzarci anche noi di raggiungere quel mondo della fantasia guardando, di tanto in tanto, il mondo ordinario in modo insolito; solo così potremo trasformare una vita banle in autentica arte.
Buona vita!
maestrocastello

martedì 20 aprile 2010

Giocavamo a bottonella.


Dove si giocava una volta…….

Io crescevo e stavo tutto il giorno per la strada con le amiche a giocare a bottonella. Per giocare andavamo a staccare tutti i bottoni dai vestiti e dai cappotti.
Avevamo mucchi di bottoni di tutti i colori. Quelli dorati erano i più preziosi, valevano un milione; quelli neri mezzo milione, poi c’erano i rossi e i gialli, di uguale valore. I bianchi valevano meno di tutti. I bottoni verdi portavano sfortuna e nessuno li voleva. Mia madre si arrabbiava quando andava per mettersi un vestito e lo trovava senza bottoni. Ne aveva uno nero e a lei piaceva molto. Ogni volta che lo trovava senza bottoni mi riempiva di schiaffi. Poi comprava degli altri bottoni e con pazienza li ricuciva. Ma, passato qualche giorno, io glieli staccavo di nuovo.
(adatt. Da Dacia Maraini)
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Dove si gioca oggi………

Nel mio quartiere io e i miei amici giochiamo soltanto quando il portiere del palazzo non c’è. Quando c’è lui, non ci azzardiamo a giocare al pallone; ci manda via e dice che noi gli rompiamo i fiori che ha piantato. Allora, noi ce ne andiamo a giocare nel cortile di un’altra casa. Anche lì la gente reclama: dice che noi non siamo di quel palazzo, dice che siamo grandi e che rompiamo i vetri delle finestre. Ci mandano via anche da lì. Allora, non sapendo dove andare, ci mettiamo a giocare per la strada. Passano automobili, autobus, motorini che non vanno piano… Come se non bastasse dobbiamo stare attenti al vigile che, se ci vede giocare, ci toglie il pallone…
(adatt. Da “Tre bestemmie uguali e distinte” di A. Frassinetti, Feltrinelli)
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Il gioco è una forma piacevole di apprendimento. Dietro ad ogni attività ludica si nasconde un'espressione creativa e funzionale, strettamente legata allo sviluppo dell'intera personalità del bambino in quanto coinvolge l'atto motorio, il pensiero, il linguaggio e soprattutto la sfera emotiva di ogni individuo. Quando il bambino gioca “a far finta di “ imita il mondo dei grandi, apprende meccanismi e regole che ritroverà una volta cresciuto. Ma dove giocano ora i bambini? Quando i figli erano adolescenti, ce li gustavamo, noi stando in finestra e loro a scorazzare nel cortile sottostante. Erano continue litigate con chi, avendo perso memoria di aver avuto figli pestiferi, si lamentavano del vociare dei nostri.
Ora possiamo stare anche ore alla stessa finestra che non c’è l’ombra di un solo bambino. Dove sono finiti tutti i bambini? I nostri figli, ormai uomini, sono in giro a guadagnarsi la “stozza” e si guardano bene dal mettere al mondo figli che è sempre più difficile mantenere. Quei pochi sono reclusi nel chiuso degli appartamenti, in scuole a tempo sempre più pieno, piscine, palestre o nelle varie scuole di danza e di canto. Credo che difficilmente il nostro cortile rivedrà ancora tanti bambini vocianti di un tempo.
Buona vita!
maestrocastello

sabato 17 aprile 2010

Il compleanno di Giovanna.


Farò della mia anima uno scrigno
per la tua anima,
del mio cuore una dimora
per la tua bellezza,
del mio petto un sepolcro
per le tue pene.
Ti amerò come le praterie amano la primavera,
e vivrò in te la vita di un fiore
sotto i raggi del sole.
Canterò il tuo nome come la valle
canta l'eco delle campane;
ascolterò il linguaggio della tua anima
come la spiaggia ascolta
la storia delle onde.
~ Kahlil Gibran ~

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Grazie, perchè sei una persona speciale;
perchè mi hai insegnato a crescere, crescendomi accanto;
perchè rischiari col sorriso la mia vita;
perchè non ti fa paura il dolore e le difficoltà del domani;
perchè sei curiosa; perchè sai godere anche di piccole cose:
perchè passi sopra a tutte le mie goffagini;
grazie per essermi accanto!

Ti amo! Giovanni

venerdì 16 aprile 2010

Le apparenze, che inganno!


Segnalo una storia del web che si presta a strappare una risata e ci induce a qualche utile riflessione.

Nella sala d'attesa di un grande aeroporto una ragazza che apettava il suo volo, sapendo di dover attendere a lungo, decise di comprare un libro per non annoiarsi. Per godersi meglio la lettura, comprò anche un pacchetto di biscotti ed andò nella sala vip per poter stare più tranquilla. Si sedette: accanto a lei c'era la sedia con i biscotti, dall'altro lato un signore che stava leggendo il giornale.
Quando prese il primo biscotto notò con suo grande disappunto che anche l'uomo accanto a lei ne aveva preso uno: si sentì profndamente indignata ma, per quieto vivere, preferì non dire nulla. Continuò a leggere il suo libro ma in realtà rimuginava sul fatto che se avesse avuto un po' più di coraggio, gliene avrebbe dette quattro... e magari gli avrebbe anche assestato un bel pugno in faccia, a quel grandissimo maleducato !!!
Nel frattempo, ogni volta che lei prendeva un biscotto, l'uomo accanto a lei faceva altrettanto. Continuarono così finchè nel pacchetto non rimase solo un biscotto: la ragazza esitò un istante, curiosa di vedere fino a che punto si spingeva l'arroganza di quell'uomo.
Contrariamente ad ogni sua aspettativa, l'uomo prese l'ultimo biscotto e lo divise a metà, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Questo era veramente troppo!!! La ragazza, indignata, si mise a sbuffare, raccolse in fretta e furia tutte le sue cose, il suo libro, la borsa e si incamminò verso l'uscita della sala d'attesa.
Quando, sbollita un po' l'ira, cominciò a sentirsi un po' meglio, si sedette su una sedia lungo il corridoio per non attirare troppo l'attenzione ed evitare altri dispiaceri.
Chiuse il libro e aprì la borsa per infilarlo dentro quando... si avvide che il pacchetto di biscotti era ancora intatto al suo interno.
Il viso le si arrossò immediatamente per la vergogna, e solo allora si rese conto del fatto che il pacchetto dei biscotti che aveva mangiato apparteneva all'uomo seduto accanto a lei, e che costui lo aveva condiviso spontaneamente con lei, senza sentirsi indignato, nervoso o superiore, senza sbuffare nè sentirsi ferito nell'orgoglio.
(da madvero. It)
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Dico sempre che dobbiamo imparare a guardare oltre l'ovvio quotidiano e non dare mai giudizi affrettati.
Chissà quante volte anche noi abbiamo mangiato i biscotti di un altro! E' proprio vero che la realtà è spesso l’esatto contrario di quello che sembra.
buona vita!
maestrocastello

giovedì 15 aprile 2010

LA DIVERSITA’ E’ SOLO UN ABITO.


“Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo guardare le cose sempre da angolazioni diverse” dice Robin Williams in “L’attimo fuggente”, film di Peter Weir del 1989. Guardare al di là dell’evidente non è cosa di tutti, solo una mente illuminata riesce a fotografare il mondo col grandangolo mentale e carpirne le sfaccettature differenti. Bisognerebbe ogni tanto, vivere la guerra anche dall’altra parte della barricata, mettersi nei panni del proprio nemico! Questo diventa sempre più impossibile in una sociètà che tende a massificare tutto, ad omogeneizzare caratteristiche particolari, condizioni economiche e sociali degli individui, livello culturale; appiattendone le peculiarità e dissolvendone l’unicità. Per la nostra società, concetti come “minoranze” e “diversità” suonano sempre più come mere parole e sempre meno come concetti con una loro valenza positiva. La colpa è sia del singolo che di questa società che, pur proiettata nel tremila, ha ripristinato barriere di stampo medioevale; perché si vede minacciata dalla diversità, sia che consista sulla diversa nazionalità, sul colore della pelle, sul diverso credo religioso o tendenza sessuale; sia semplicemente sulla diversa opinione politica. Pensate che i Romani avevano costruito un impero aprendo al mondo ed importando, senza alcun pregiudizio, le menti più eccelse in ogni campo dell'arte e della cultura; concedendo perfino la possibilità di diventare "cives romanus". Ma erano altri tempi! La parola che va tanto di moda oggi è “tolleranza” che passa troppo spesso per un valore positivo ed è spesso utilizzata con malizia, assumendo un carattere tutt’altro che bonario. Tolleranza significa semplicemente che tu accetti l’altro, gli permetti di esistere; ma poni te stesso su un gradino più alto. La finta disponibilità del diverso che vedi tendenzialmente come tuo antagonista cela un sentimento di intolleranza che trabocca quando questi accampa diritti, è troppo visibile, ti ruba un lavoro che non faresti mai, crea problemi. Sei intollerante quando non favorisci una effettiva integrazione del diverso, quando non sei disposto ad abbattere quella specie di scala che ti sei costruito, ponendoti arbitrariamente sul piano più alto; quando guardi con disprezzo e cinismo quelli che sono piazzati sui gradini più in basso. La soluzione? Serve un’opera di educazione capillare sul singolo e sulla stessa società che non imponga modelli e riconsideri la diversità come un valore aggiunto e fattore di crescita civile. E’ compito di tutti, col dialogo e con la protesta, fare in modo che questa società la smetta di considerare “diversi” e quindi esclusi ed emarginati, omosessuali, matti, portatori di handicap, i perdenti in genere, chi è “sfigato” chi non imbroglia, chi non si sballa, chi non veste alla moda e chi non entra nella taglia 40.

Così scriveva Bertolt Brecht:
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perchè rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perchè mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perchè non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me e non c’era rimasto nessuno a protestare.

Buona vita!
maestrocastello

lunedì 12 aprile 2010

Dov'è l'uomo?


"Né un fiore, né un'ombra
Dov'è l'uomo?
Nel trasporto di rocce,
nella traccia del rastrello,
nel lavoro della scrittura"

(Poesia Zen)




Il tema centrale dell’antica filosofia ermetica è il rapporto tra l’uomo e un Dio che sfugge nella sua totale trascendenza all’intelletto umano. L’uomo può cogliere l’essenza divina o attraverso la “gnosi”, praticamente Dio stesso che illumina l’uomo e lo conduce all’estasi e al ritorno dell’anima al suo creatore; oppure attraverso tracce e vestigia che Dio ha lasciato nella creazione della natura che favoriscono un incontro tra due dimensioni : umana e divina. Se le tracce di Dio si trovano, dunque, nella natura; dove possiamo mai trovare le tracce dell’uomo? Se gli insegnamenti del catechismo non ci ingannano, l’uomo va cercato sulle tracce del suo sudore millenario: nel trasporto delle rocce, per creare meraviglie come le piramidi; oppure nella traccia del rastrello, per rendere la terra prodiga di frutti; ma anche nei fiumi di pagine stampate o semplicemente ricopiate da umili fraticelli amanuensi. Ma un giorno l’uomo disattese le bibliche consegne. “ E se ci fosse un modo per non sudare?” aguzzò l’ingegno e lo trovò il modo! Ideò macchine capaci di sconvolgere totalmente la natura: spaccò montagne, deviò il corso di fiumi, distrusse intere foreste, trivellò fondali marini, consumò risorse rinnovabili e non, ad un ritmo impressionante, inquinò l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e la terra che ci dà nutrimento; senza pensare alle conseguenze! Ma ora c’è un rimedio a questo scempio? In questa corsa insensata al consumismo dobbiamo avere chiaro che, mentre una singola persona o Stato può arrecare danni all’umanità intera; la soluzione dei problemi è al di fuori della portata dei singoli individui. Dovremmo tenere bene a mente le parole che il Capo Indiano Seath, della tribù Suwamish, fece in occasione dell’assemblea dei capi indiani del 1854 :” "Tutti noi esseri viventi siamo mutuamente dipendenti uno dall'altro. Noi sappiamo questo: la terra non appartiene all'uomo, è l'uomo che appartiene alla terra. Noi sappiamo che tutte le cose appartengono a una unica famiglia. Tutto è unito. Non è l’uomo che ha ordito le trame del tessuto della vita, egli è solo uno dei suoi fili. Quello che l'uomo fa a questo tessuto lo fa a se stesso…. Dov'è il bosco? E' sparito! Dov'è l'aquila? Sparita! E' la fine della vita e l'inizio della sopravvivenza“
E quando avremo distrutto ogni traccia della natura, avremo perso, inesorabilmente, ogni traccia e vestigia di Dio.
Buona vita!
maestrocastello

giovedì 8 aprile 2010

L’ELEMENTARE, UNA SCUOLA CHE C’È


La scuola elementare, come scuola dell'obbligo, accoglie tutti i bambini dai 6 agli 11 anni e concorre alla formazione dell'uomo e del cittadino nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità individuali, sociali e culturali. Mi sono trovato ad intraprendere il mestiere di maestro per caso, quando questo era ancora un mestiere anche per uomini e, poco per volta, mi ha coinvolto totalmente. La tanto vituperata scuola italiana trova il suo riscatto proprio nella scuola elementare che non è mai rimasta al palo in anni di profondi cambiamenti della nostra società. Pensate che negli anni ’70, in cui ho cominciato come supplente, erano ancora in vigore i programmi del 1955 che rispecchiavano una realtà da dopo-guerra e si dovette aspettare gli anni ’90 per avere dei programmi più consoni alle generazioni del nuovo millennio. Eppure la scuola elementare, in quegli anni, non è rimasta a guardare. Gruppi spontanei di insegnanti, associazioni culturali, sindacati e partiti pensavano già ad una nuova didattica, ad un novo modo di insegnare; ad abbandonare tutto quel nozionismo che aveva ammorbato la nostra infanzia. Infatti, già si pensava a libri di testo alternativi, al giornalino scolastico, alla boblioteca di classe, al lavoro di gruppo, ad aprire le porte delle singole aule, per far collaborare alunni di classi diverse. Si riteneva che la scuola non dovesse rimanere un fatto esclusivo degli addetti ai lavori e cominciò la gestazione dei “decreti delegati” , per aprire i cancelli delle scuole al territorio: famiglia, comune, parrocchia, associazioni ecc. In quegli anni ero un giovane sindacalista ed il ricordo più bello legato a quei tempi è la mia partecipazione alle varie discussioni con sindacalisti e politici per caldeggiare norme a favore dell’integrazione scolastica di alunni disabili, fino ad allora non prevista. In questo campo la scuola elementare è stata una vera antesignana, mostrando grande disponibilità e prendendo le distanze dalla convinzione atavica che la persona con disabilità, più o meno grave, era da considersi come una vergogna che la famiglia doveva tenere nascosta in casa. Con la legge 104 del 5/271992 veniva finalmente sanata una grande ingiustizia e sancito il diritto all’istruzione e all’integrazione scolastica che si fonda sugli artt. 3, 34 della Costituzione, “l’alunno disabile può frequentare la scuola dell’obbligo anche sino al compimento del 18° anno di età “(legge 104/1992, art. 14, comma1). Le classi iniziarono a popolarsi di queste figurine un po’ “buffe” che gli altri bambini guardavano con soggezione iniziale e bastava che ti facessero un timido sorriso per scatenare una catena di solidarietà affettiva. Negli anni, ne ho seguiti diversi di questi alunni speciali che hanno rappresentato un valore aggiunto nelle mie classi. Non avendo specifiche competenze o specializzazioni ho sempre messo in campo semplicemente la mia umanità, sensibilità e l’attenzione giusta. Vi posso garantire che tutto questo ha pagato perché sono sempre riuscito a capitalizzare queste presenze speciali a vantaggio di tutti. Ho notato, negli anni, che se viene impostato un buon lavoro di integrazione degli alunni disabili si scoprono scolaresche maggiormente affiatate, collaborative e serene; dove è piacevole crescere insieme. Ora mi resta solo il ricordo di visi di bimbe occhialute quali Francesca o Valentina che parlavano a gesti, ma si facevano capire benissimo; di me che alternavo sorrisi a fermezza, lo sforzo che facevo per non apparire troppo buono, per non bruciarmi quei margini di autorevolezza che un insegnante deve sempre conservare. Questi sono i miei di ricordi; spero che anche quelli di tutti loro siano carichi del mio medesimo affetto.
Buona vita!
Maestrocastello.

(nella foto il maestro Giovanni e la sua alunna "speciale" Francesca Tanzi che si sono incontrati per caso sulla spiaggia di Tor San Lorenzo. Francesca ora ha 30 anni e il suo maestro 60 suonati! ......."Francesca, quanto mi hai fatto tribolare! Non sentivi e non potevi parlare; ma ti facevi capire benissimo!")

venerdì 2 aprile 2010

L'anno del pensiero magico. (ovvero, il modo per esorcizzare il dolore del lutto).


Si chiama lutto il processo di adattamento alla perdita di una persona cara. Il problema di ogni generazione è stato quello di metabolizzare la morte di un congiunto, d’ un amico o di un grande uomo e si è sempre pensato che sarebbe poi stato impossibile vivere senza. Nelle religioni tradizionali vi è sempre un paradiso, oppure la reincarnazione, dopo la morte. E’ un ottimo metodo per preparare gli uomini a morire. Ma c’è anche chi, nonostante pensi alla morte con la speranza di una vita futura; vive nell'incessante paura di quell'istante in cui entrerà nel suo cerchio. Dice un maestro Zen : “Svegliarsi non significa soltanto aprire gli occhi: anche morire è svegliarsi. La vita e la morte sono identiche. Se accettate la morte « qui e ora », la vita diverrà più profonda”. Nei miei ricordi di bambino degli anni cinquanta era ricorrente una filastrocca di San Filippo Neri, "vanità delle vanità, tutto il mondo è vanità, alla morte che sarà ogni cosa è vanità…"; era un po’ come il tormentone del Medioevo: ” Ricordati che devi morire! ” e l’idea della “morte eterna” mi ha sempre fatto sudare freddo, soprattutto la parola eterna che significa “per sempre”. La Chiesa aveva la necessità di incuterci un “salutare timore” per la sorte dell’uomo e la religione era vista come una specie di forma assicurativa sugli infortuni dell’aldilà. Oggi si parla sempre meno di questo argomento e si tende ad allontanarne sempre più il pensiero della morte, come se la cosa non dovesse mai riguardarci, o, se proprio deve accadere, che accada il più tardi possibile. Poi succede che “La vita cambia in un istante. Un normale istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita”, proprio come è capitato alla scrittrice e giornalista Joan Didion, autrice di “L’anno del pensiero magico”. John Gregory Dunne, sposato da quarant’anni con Joan Didion, muore all’improvviso la sera del 30 dicembre 2003. Ed è così che per Joan inizia l’anno del pensiero magico. “Un anno in cui tutto viene rimesso in discussione, riconsiderato, riformulato. Le idee sulla morte, sulla malattia, sul calcolo delle probabilità, sulla fortuna e sulla sfortuna, sul matrimonio e sui figli e sulla memoria, sul dolore, sui modi in cui la gente affronta o non affronta il fatto che la vita finisce, sulla fragilità dell’equilibrio mentale, sulla vita stessa”(Il Passatore). Questa è la stessa cosa che succede a tante nostre donne che, pur avendo messo in conto un tale evento, non pensavano che arrivasse davvero un tale momento anche per loro e quando, improvvisamente arriva è uno stravolgimento. Hanno inizio così le varie fasi del dolore che vanno dalla negazione della realtà, alla rabbia, alle auto recriminazioni, alla profonda depressione e, finalmente, all’accettazione. La donna si aggira per la casa ed è sicura di vedere la persona amata e la vede, a tratti, con l’immaginazione; Non può essere che il marito non ci sia più! Sente il suo odore nei vestiti appesi; “ma sì, è tutto uno scherzo!”. Quando gli effetti della negazione della realtà svaniscono e riappare il dolore, è presa da un senso di rabbia : “doveva succedere proprio a me?” e, ancora, di autorecriminazione: “se ci fossimo rivolti al medico prima, se avessimo consultato altri specialisti, se… se…se..”. La verità è che non si è ancora pronti ad accettare tutto quel dolore e si passa nella fase depressiva: la donna è continuamente triste, piange, si dispera, fatica a concentrarsi. Ha la sensazione che il defunto sia in qualche modo ancora presente e, perciò, farà fatica a regalare vestiti e scarpe del marito. “ E se dovesse tornare, cosa indosserebbe? Non potrebbe mica camminare scalzo!”. Si innesca quel “pensiero magico” di Joan Didion che” induce a credere di poter modificare ciò che è già accaduto, di poter tornare indietro, perché lui possa tornare indietro. Fino a che, “dopo un anno e un giorno, Joan si rende conto, quasi suo malgrado, che qualcosa sta cambiando. Che guardando al tempo trascorso incontra ricordi in cui John non è più presente. Che è necessario, e giusto, lasciare andare i morti. Per poter sopravvivere. Per poter continuare a vivere”. (il Saggiatore). La rassegnazione è il segno evidente che è avvenuto quel normale processo di adattamento alla perdita che ci permetterà di vivere nella consapevolezza che la morte, per quanto dura da accettare, è il naturale epilogo della nostra recita su questo palcoscenico, chiamato vita.
Buona vita!
Maestrocastello.