venerdì 26 giugno 2009

Gli uomini sono tutti uguali?




“E Dio disse….gli uomini sono tutti uguali davanti a me, alti e bassi, bianchi e neri, ricchi e poveri. Ma per i neri, piccoli e poveri sarà molto dura!” Questa battuta di Giobbe Covatta nasconde, in effetti, una profonda verità: che gli uomini storicamente non sono stati mai tutti uguali. Se pensate fino a pochi secoli fa la stessa Chiesa tollerava la schiavitù, anzi proprio sulle basi delle sacre scritture si affermava che c’erano uomini nati schiavi in quanto stavano scontando per volere di Dio il peccato dei propri avi, il saccheggio dell’Africa (la tratta dei negri) e lo sterminio degli Indiani d’America sono stati resi possibile proprio per questo supporto delle dottrine cristiane. Vi pare che il messaggio evangelico che gli uomini sono tutti fratelli, almeno nel mondo attuale, sia praticato o quantomeno praticabile? Purtroppo, storicamente, le risorse della Terra sono in mano di una minoranza di nazioni forti che difficilmente rinunceranno ai loro privilegi a discapito dei più deboli che sono la maggioranza. Nell’assemblea mondiale della sanità, ad esempio, si è faticato molto a convincere colossi quali gli USA a modificare l’attuale sistema di Ricerca e Sviluppo basato sul meccanismo dei brevetti e sugli alti prezzi dei farmaci, in favore delle popolazioni più povere del mondo che restavano così escluse dal sacrosanto diritto alla salute. Si contano sulle dita di una mano quegli Stati che hanno realmente azzerato il debito alle Nazioni più povere. All’interno dello stesso Stato italiano non si cerca forse di selezionare i cittadini in categorie, in base all’appartenenza geografica, al credo politico o religioso? Un povero Cristo ha il diritto di poter essere musulmano, comunista, omosessuale o meridionale senza essere guardato male da tutti? Tempi duri per i neri, piccoli e poveri e come diceva il buon Catalano in” quelli della notte” : è molto meglio essere bianchi, alti e ricchi! Meditate gente... Meditate!
Propongo due esempi di uguaglianza fra gli uomini: “Li pagliacci” di Trilussa” e la notissima “a livella” di Totò.
Buona vita!
maestrocastello.

Li pagliacci (Trilussa).

Guarda li burattini su la scena
co' che importanza pijeno la cosa:
guarda er gueriero ch'aría contegnosa.
come se sbatte bene, come mena!

Vince tutti! E', terribbile! Ma appena
la mano che lo móve se riposa,
l'eroe s'incanta e resta in una posa
che spesso te fa ride o te fa pena.

Lo stesso è l'omo. L'omo è un burattino
che fa la parte sua fino ar momento
ch'è mosso da la mano der destino;

ma ammalappena ch'er1 burattinaro
se stufa de tenello in movimento,
bona notte, Gesù, ché l'ojo è caro2!

Li burattini, doppo lavorato,
finischeno ammucchiati in un cantone,
tutti in un mazzo, senza fa' questione
sopra la parte ch'hanno recitato.

Cosi ritrovi er boja abbraccicato,
ar prete che je dà l'assoluzzione,
mentre l'eroe rimane a pennolone
vicino a li nemmichi ch'ha ammazzato.

è solo li ch'esiste un'uguaglianza
che t'avvicina er povero pupazzo
ar burattino che se dà importanza:

e, unito ner medesimo pensiero,
pare che puro er Re, framezzo ar mazzo,
diventi democratico davero!


1. Non appena il. 2. Finisce la commedia: dalla frase attríbuita ad
uno scaccino assai economo nell'atto di spegnere la lampada della chiesa.
3. Abbracciato. 4. Penzolone









mercoledì 24 giugno 2009

Olive? che bontà!





















Gli ulivi caratterizzano il paesaggio pugliese in maniera determinante, disegnando forme e colori d’impareggiabile bellezza che fanno della Puglia la “terra dell’olio”.
L’oro verde, come viene chiamato l’olio d’oliva, rappresenta da sempre uno dei cardini della cucina mediterranea, una moda di cui molti esperti attestano gli aspetti benefici per la salute: è ricco di provitamine, permette l’assorbimento da parte dell’intestino delle vitamine liposolubili (A, D, E, K) e possiede componenti antiossidanti, come flavonoidi e altri polifenoli, in grado di contrastare i cosiddetti radicali liberi, principali responsabili dell’invecchiamento. L’olio d’oliva è, quindi, un alimento completo, fondamentale per giovani e anziani grazie ai molteplici effetti benefici sia per l’apparato digerente che per quello circolatorio.. La leggenda narra che la pianta d’ulivo sia nata da una disputa tra il dio Poseidone (Nettuno) e la dea Atena(Minerva) che dovevano presentare a Giove qualcosa di nuovo ed originale: vinse Atena che presentò una giovane pianta di ulivo. Già esisteva 8000 anni fa in Medio Oriente e si diffuse in Grecia ed in Siria e venne commercializzato dai Fenici nel Mediterraneo. Presso i Romani era usanza di far pagare i tributi sotto forma di olio d’oliva alle popolazioni conquistate. L’olio, figlio dell’ulivo, venne utilizzato non solo per arricchire gli alimenti, ma anche per i massaggi dei gladiatori e nella cosmetica. Nei poemi omerici veniva impiegato esclusivamente per la pulizia e per l’igiene. Ancora nel terzo millennio l’olio d’oliva conserva tutto il suo fascino carico di misticismo. La sua pianta che si radica dappertutto, anche nei posti che pensavamo impossibili, rappresenta un po’ la caparbietà della nostra gente contadina che storicamente si ammazza di fatica, non si arrende facilmente e spesso risulta vincitrice nella battaglia personale con l’ imprevedibilità della natura. Quante nottate passate da ragazzino nei trappeti del mio paesino ad aspettare il turno della spremitura: la gente aveva in tasca fette di pane che imbeveva d’olio bello verde e caldo per saggiare la bontà del prodotto appena partorito. Ma la pianta d’ulivo non elargisce soltanto il prezioso prodotto per condire, ma anche olive buone da mangiare. Le olive da mangiare sono parte integrante del paesaggio pugliese. Si vendono sulle bancarelle disseminate nei viali delle città principali, oltre che sui banchi dei negozi di gastronomia. Se ne producono ogni anno circa trecentomila quintali, di cui sedicimila consumate subito e il resto destinato alla conservazione. Sono dolcificate in calce e soda caustica, quindi conservate con vari metodi, soprattutto in salamoia. Le varietà più diffuse nella regione sono la "grossa di Spagna", la "sant'Agostino", la "ascolana tenera" e la "coratina". Andria, Corato, Ruvo e Bitonto sono con Cerignola e Trinitapoli i luoghi di riferimento di questa produzione. Molto apprezzate anche la “Peranzana” dell’Alto Tavoliere; ma non vanno dimenticate la “Bella di Cerignola”, Sant’Agostino nel Barese, la Pasola nel Salento. Ma se visitate qualsiasi località della Puglia vi sapranno presentare varietà di olive da paura. L'aggiunta di aromi ne accresce il gradimento: molti usano i semi di finocchio e l'alloro. Le preferenze dei consumatori sono divise soprattutto fra le olive verdi dolci e le cosiddette "baresane", nere, lucide e di notevole volume.
Spesso vengono impiegate per accompagnare aperitivi e cocktails, hanno un ruolo in numerose preparazioni culinarie: sono chiamate a completare ripieni o a guarnire pietanze di carne o di pesce, oltre a vari tipi di tielle.
Sono diverse le modalità di lavorazione e conservazione dell’oliva, tutte pratiche appartenenti alla cultura contadina pugliese. Mi sono divertito a fare una ricerca sui vari modi di preparare le olive in Puglia, non tutti naturalmente, e ve la propongo:
- Olive in serbo
Con questo metodo è possibile conservare le olive anche per periodi di tempo abbastanza lunghi, senza alterarne le proprietà nutritive ne quelle organolettiche. Dopo aver fatto appassire le olive al sole si possono disporre in una vaso di creta premendole e schiacciandole. Poi le cospargerete di sale e le condirete a piacere con dei semi di finocchio o di anice.
- Olive col sale
Dopo averle lavate abbondantemente, si sistemano le olive in un recipiente di creta o in un grosso piatto o vassoio, si cospargono di sale e si capovolgono giornalmente.
- Olive arrostite
La caratteristica merenda del contadino di una volta era a base di olive succulente. Si sceglievano quelle più grosse, mature e dolci per arrostirle sotto la brace.
- Olive fritte
Olive polpose e dolci possono essere soffritte in poco olio. Si accompagnano particolarmente bene con il gusto caramellato del mosto cotto.
- Olive alla calce
Dopo aver raccolto le olive verdi si dispongono in tinozze (contenitori in legno). Per ogni 4 kg circa di olive si prendono 1,700 kg di calce viva e 3 kg di cenere di quercia da sciogliere nell’acqua in cui stanno macerando le olive. Lasciatele riposare per un giorno intero, per i successivi 2 o 3 giorni si possono di tanto in tanto togliere dall’acqua e lavare. Nei giorni successivi, passare spesso le olive in acqua fresca con sale, semi di finocchio, foglie di alloro o rametti di mirto.
- Olive in acqua
Si scelgono le olive verdi da disporre in un grosso vaso di creta ricoperte di acqua. Giornalmente, per un mese, verrà cambiata l’acqua. Nell’acqua aggiungere 100 g di sale per ogni chilogrammo di olive, foglie di alloro a piacimento. È consigliabile lasciar bollire l’acqua per qualche secondo, successivamente, raffreddata, si può versare nel vaso contenente le olive. Aggiungere due o tre spicchi di limone, un rametto di mirto e molti rametti con foglie di alloro. Dopo quattro o cinque mesi sono pronte. Non prenderle con le mani ma usare un mestolo. (da “Cucina pugliese” di L. Sada).
Sono graditi suggerimenti e varietà diverse di preparare le olive.
Buona vita e buon appetito!
maestrocastello.

lunedì 22 giugno 2009

Che genitori siete?




Tempo fa leggevo in una rubrica : “io sono stata una bambina che non ha cercato di farsi capire. Lo feci apposta: mio padre era malato, non potevo permettermi il lusso di mostrare anche i miei problemi ed il mio dolore...la ferita brucia ancora... ma, in fondo, è come se mi fossi ferita da sola...” Sono stato sempre coonvinto che il rapporto figli- genitori sia irto di difficoltà , oggi più che in passato. Nel caso della ragazza della rubrica pensate che sia stata della ragazza la colpa di non aver chiesto aiuto o piuttosto dei genitori di non essersi accorti del suo disagio? Mentre i figli, specialmente nella fase di crescita, tentano in vario modo di catturare l’attenzione dei grandi per condividere problemi ed ansie dell’adolescenza; questi ultimi si chiedono se sono dei “buoni genitori”, mossi dal desiderio di dare ai propri figli gli strumenti migliori per affrontare la loro vita e il timore di non essere all'altezza. Spesso le richieste dei figli non riguardano l’ultimo modello di video-citofonino e tanti genitori sono consapevoli che il loro atteggiamento è fondamentale per lo sviluppo della personalità dei propri figli. Tutti i giorni i genitori sono bombardati da messaggi contraddittori e ansiogeni; il rischio è di perdere la bussola e di finire nel vicolo cieco dei sensi di colpa che sono quasi sempre immotivati. Educare significa accompagnare i figli verso l'apprendimento delle regole basilari del vivere civile. Magari esistesse una scuola per imparare a fare i genitori ! In fondo non è proprio un grande male, perché il metodo è personale e bisogna costruirselo da soli, badando ad alcune regole dettate soprattutto dall’esperienza e dal buon senso. Esistono alcune semplici strategie per crescere un figlio che creda in se stesso e abbia una buona dose di autostima:
- Essere autoritari è spesso indice di debolezza interiore, mentre l’autorevolezza si guadagna” sul campo”, in un rapporto di dialogo. Il figlio non deve vivere il divieto come un’imposizione, ma come una decisione condivisa.
- Bisogna ascoltare i bisogni dei propri figli ponendo contemporaneamente dei limiti che gli consentono di diventare a poco a poco indipendenti.
- come genitori, non dobbiamo proteggere nostro figlio dalle difficoltà, ma dobbiamo aiutarlo a superarle con successo. Così può imparare a contare su di sè e ad affrontare ogni situazione.
- Mai dire: "sei uno sciocco!", ma piuttosto "hai avuto un comportamento sciocco", sottolineando il fatto che lui come persona vale sempre tantissimo e che la nostra stima per lui non è cambiata.
- accettiamo nostro figlio per la sua personalità, per i suoi errori e per i suoi sentimenti. Accettiamo le critiche per scoprire le sue esigenze.
- non dobbiamo mai punire nostro figlio, i metodi basati sulla punizione sono passati di moda e non ottengono grandi risultati, se non quello di creare un cattivo rapporto con i genitori.
- Quando fa resistenze o quando piange lasciamolo stare e solo quando gli sarà passata sarà pronto per suggerirgli la soluzione di problemi da un punto di vista nuovo che prima avrebbe rifiutato.
- Invece di dirgli cosa deve o non deve fare, indichiamogli la via di quello che è giusto. Ad esempio “fai attenzione quando attraversi la strada” è meglio di “non farti investire quando attraversi”. Con la seconda frase concentreremmo la sua attenzione proprio sul farsi investire.
- I bambini imparano con l’esempio. Puniamoli con violenza e ne faremo dei violenti. Invece di punirli quando sbagliano, cerchiamo di premiarli quando agiscono bene: crescerà in loro l’autostima.
- Limitiamo gli ordini, in favore di cordiali richieste. Se siamo costretti a ricorrere ad un ordine, purchè sia fatto con rispetto, senza urlare, con impassibilità e senza giustificare le nostre ragioni. Noi dobbiamo essere per lui una guida forte e motivante.
- Permettere qualsiasi cosa di certo non è mai una buona abitudine. All’interno della propria famiglia bisogna costruire regole comuni che favoriscano le relazioni tra i suoi membri, aiutino a vivere civilmente ed a crescere, ciascuno nel proprio ruolo.
Buona vita!
maestrocastello.

domenica 14 giugno 2009

Ultimo giorno di scuola.





Sono in fila dal fornaio e la commessa sta servendo una mamma con bambino al seguito che ha appena ordinato due vassoi di pizzette assortite da portare a scuola del figlio. “Oggi è giorno di recita e poi il rinfresco in classe!”. Mi sovviene improvvisamente di essere stato, fino ad un anno fa, un maestro elementare e di aver vissuto tantissimi ultimi giorni di scuola. A dire il vero, ero un tantino infastidito dal clima di” fine anno” : scolaresche che provavano spettacoli fino alla noia, bambini sempre più stressati e distratti; maestre spesso in preda ad attacchi d’ansia per la paura di non arrivare pronte il giorno della recita. La recita è un utile banco di prova che aiuta a socializzare, a superare la paura di parlare davanti ad altre persone e diventare meno timidi e disinibiti. La mia idea è stata sempre di coinvolgere il più possibile gli alunni a realizzare il progetto di recitazione: nella scelta del copione, nella riscrittura delle parti, nella preparazione delle scene, nella scelta dei costumi e delle musiche. Gli alunni vanno coinvolti tutti indistintamente, non solo i più bravi; poiché si tratta di un progetto dell’intera classe e non di un gruppo. Ai più timidi anche una parte breve servirà per disinibirli. L’allestimento del ”Ritorno di Ulisse” con la quinta classe dello scorso anno mi ha strabiliato per le scoperte fatte sui miei alunni: capacità canore di alcuni, scelta dei costumi azzeccatissima, capacità di smontare e rimontare una scena in pochissimo tempo, preparazione collettiva dei materiali (la nave di Ulisse, fatta con compensato, corde e cartone e sapientemente dipinta a mano dai ragazzi sembrava vera; tanto da essere stata donata alla scuola che ancora la conserva). La recita non deve rappresentare tanto la soddisfazione per il genitore di vedere il figlio sul palco; quanto per far scoprire al ragazzo le proprie capacità.
Non sto a parlare di tanti altri momenti che sono un classico di un fine d’anno scolastico, ma di uno in particolare, sì, mi piace ricordare: il gavettone!
Già l’avevo concesso in quarta classe e mi pareva scontato accordarlo nell’anno conclusivo. Il giorno era stato scelto nel mio turno di mattina: i ragazzi tutti provvisti di cambio biancheria e tanti, ma tanti palloncini. L’anno prima tutto era filato liscio, nonostante le obiezioni dei bidelli. In quinta, il gavettone è diventato un terzo conflitto mondiale. I ragazzi hanno proprio esagerato, sotto l’occhio impassibile del maestro che ha concesso di tutto e di più. Non solo hanno bagnato gli indumenti da battaglia; ma anche i ricambi e i ricambi dei ricambi! Il salone scelto come spogliatoio maschile era ridotto ad una pista da sci: rincorse, scivolarelle e tantissime risate. Le bambine è meglio non parlarne: tutte in costume da bagno e biancheria stesa nel cortile interno della scuola!
Che dite, i ragazzi se ne ricorderanno? Auguro per loro ancora tanti bei momenti spensierati!
Con affetto, il vostro maestrocastello.

giovedì 11 giugno 2009

Max Aub, ovvero, lo scrittore burlone.


Poco conosciuto in Italia, fu uno dei più creativi e straordinari personaggi del mondo letterario spagnolo del ‘900. Accanto alla prosa seria ed impegnata Aub coltivò sempre il genere satirico , umoristico e creò un suo piccolo ed eccentrico mondo di serissima mistificazione, di beffe che poi non lo erano affatto. In questi scritti c’è solo un desiderio puro d’ironia, di divertimento e una personale irresistibile forma d’anarchia verso qualsiasi tipo di società. Aub fu un impeccabile mistificatore, capace di inventarsi di sana pianta un geniale pittore cubista spagnolo mai realmente esistito, scrivendone la biografia e organizzando addirittura una bellissima mostra, tutta falsa, di disegni e dipinti postumi dell’artista. Nel 1963 simulò addirittura una antologia di poeti e scrittori stranieri da lui stesso commentati e tradotti in spagnolo. “Delitti esemplari” è l’esempio più straordinario della sua vena di originale umorismo. I delitti cui allude Aub sono quelli che quotidianamente commettiamo col pensiero e l’autore dà per consumati in un piano surreale. Vengono contemplate le antipatie, le incomprensioni, le nostre insofferenze e i tanti incontri sgradevoli della giornata sfogati e liberati attraverso delitti senza castigo che lui sa raccontare con semplicità, con leggerezza e rapidità tale che non sembrano nemmeno delitti.
Riporto qualche assaggio:

- Meglio morta!- mi disse. E l’unica cosa che desideravo era darle soddisfazione!

Lo uccisi perché non la pensava come me.

Era tanto brutto, quel poveraccio, che ogni volta che lo incontravo mi sembrava un insulto. Tutto ha un limite!

Mi bruciò, forte, con la sigaretta. Non dico che lo fece con cattiva intenzione. Ma il dolore è lo stesso. Mi bruciò; mi fece male, vidi rosso, lo uccisi. Non ebbi -nemmeno io- intenzione di farlo. Ma avevo quella bottiglia in mano!

ERRATA CORRIGE
Dove c’è scritto:
La uccisi perché era mia
Si deve leggere:
La uccisi perché non era mia.

Lo uccisi perché era idiota, perfido, scemo, tardo, stupido, mentecatto, ipocrita, ignorante, burino, buffone, gesuita, a scelta.
Una cosa si accetta, due no.

Buona vita!
Maestrocastello.

martedì 9 giugno 2009

"No potho reposare"


Se vi dico “Desvelos”, “A sa zente”, “No potho reposare”,“Disimparados”, “Pitzinnos in sa guerra” forse non vi diranno molto; sono i titoli di alcuni brani di Andrea Parodi. Vi ricordate la voce solista dei Tazenda, quel giovanotto dalla lunga chioma e dalla voce particolare, meritevole di aver reso “pop” una lingua difficile ed affascinante come il sardo? Spesso lo ricordo, a due anni dalla sua scomparsa, riguardando i video delle sue ultime interpretazioni e non vi nascondo che riascoltare quella voce da fare invidia a qualsiasi strumento musicale mi procura sempre la pelle d’oca. Al Di Meola dopo aver assistito ad un suo concerto gli disse: “ Hai la voce più incredibile che abbia mai sentito, voglio fare qualcosa con te". Anche Fabrizio De Andrè, Noa e Mauro Pagani ed altri grandi hanno cercato la sua collaborazione. Diceva che tutto quello che gli bastava era la voce, quella voce che a chi lo ha amato e apprezzato durante la sua vita non sarebbe mai bastata. Un grande esempio di umiltà e dignità che con l’arrivo della popolarità, temendo di chiudersi in un genere e diventare un prodotto, non aveva più voluto andare in tv ed aveva girato per i più importanti festival del mondo per far conoscere le particolarità della sua voce straordinaria.
Gli va riconosciuto il coraggio di salire sul palco, di rimanere con la gente, affrontando la malattia più bastarda dei nostri tempi. Se guardate il video dell’ultimo concerto a Cagliari mentre interpreta “No potho reposare”, con la testa rasata e i segni evidenti di una malattia all’ultimo stadio, fa venire i brividi.
Ciao Andrea, tu sei uno spirito con una voce che non scomparirà mai.
Non ho volutamente proporre il video di Cagliari che mette tristezza, ma voglio avere un ricordo gioioso e più artistico del brano, interpretato da Andrea in collaborazione con Al Di Meola. Buon ascolto!
maestrocastello

domenica 7 giugno 2009

Luna piena.


Chi di noi non ha trascorso nell’infanzia o nell’adolescenza quella tipica serata, sovente estiva, in cui, magari attorno ad un labile fuoco, si ascoltano le descrizioni terrifiche di storie di fantasmi o vampiri o di zombies? Pian piano lo stato emotivo dei presenti muta, dallo scherzo si passa ad un’atmosfera tetra, le ombre si animano, e gli astanti vengono invasi da sensazioni perturbanti che li riempiono di paura. E’ questo uno degli esempi più frequenti e banali di suggestione. Nelle sere di luna piena si era soliti suggestionare noi bambini con una storia buffa e divertente, quella di “Marcoffio”, buffo personaggio che avrebbe abitato sulla luna e ci facevano credere che era possibile vederlo appunto durante le serate di penilunio. Era come un esperimento autoipnotico, infatti, fissando la luna molto intensamente, mi riusciva spesso di vedere, con gli occhi della sola fantasia, le ombre che divenivano i tratti del faccione di un uomo sorridente che al mio paese chiamavano Marcoffio. In una notte calabra che non mi riusciva di dormire, mentre ero proteso a catturare scie luminose di stelle cadenti da un cielo generoso di ogni varietà di corpi celesti; guardando quell’enorme palla appesa al cielo, mi balenò il ricordo dell’infanzia, quando piccino mi soffermavo a vedere “Marcoffio“. Sarà stata suggestione, ma era intrigante per me fanciullo ricrearmi ogni volta il faccione bonario e sorridente di Marcoffio, fatto di ombre, nella luna piena. Marcoffio va guardato con gli occhi della fantasia. Ai nostri occhi di fanciulli lui puntualmente compariva, perché sapevamo vedere oltre l’evidente quotidiano.
Ma per quanti sforzi io facessi quella sera , ottenevo sempre risultati negativi. Fissavo la luna inutilmente, ma continuavo a vedere solo ombre insignificanti.
Dopo ripetute volte avevo deciso oramai di rinunciare a quella impresa, quando inquadrai la vaga linea di un volto che non mi lasciai più sfuggire. Pian piano misi sempre meglio a fuoco il faccione sorridente ; ed infine apparve lui ! Marcoffio di quando ero bambino. Quale piacevole emozione : in quell’istante mi sembrò di riappropriarmi di un pezzetto del mio passato di cui avevo completamente perduto la memoria.
Allora m’accompagnavo a ragazzotti più grandi di me che mi ammaestravano a loro piacimento.
- Guarda le stelle solamente con gli occhi e non le indicare mai, altrimenti ti becchi il panereccio ! Il panereccio è il giradito, ti viene un dito gonfio esagerato.
Così mi ripetevano, secondo le credenze di quei tempi, quei diavoli dei miei compagni e sortivano su di me un effetto tale che difficilmente poi avevo voglia di alzare più solamente lo sguardo verso l’alto; figurarsi puntare poi il dito!
Delle volte facevamo a gara , scordando il pericolo; stimolati solo dal divertimento di trovare Marcoffio per primi. Quando facevamo questi tentativi, personalmente tenevo serrate nelle tasche le mie mani, senza darlo a vedere, per timore di indicare la luna con le dita.
Altre volte mi appartavo solitario a godermi lo spettacolo senza essere pressato dagli altri che mi falsavano la giusta immagine.
A bordo della mia immaginazione intraprendevo viaggi a dir poco strabilianti che da sveglio neppure avrei osato immaginare. Mi proiettavo in un mondo straordinario che accoglieva me fuggitivo dalla realtà, della quale, a quel tempo , già sentivo un certo peso.
I benefici di quei viaggi della finzione li avvertivo sempre al rientro nella nostra dimensione, dove mi sentivo arricchito di energia interiore che mi faceva stare meglio.
Ancora adesso guardando il cielo di luna piena mi ricordo dei bei tempi quando ero convinto che la luna mi seguisse, nonostante mi spostassi in continuazione per le stradine dell’infanzia. Allora a Marcoffio ci credevo; ora m piacerebbe tanto!
Buona vita!
maestrocastello.

sabato 6 giugno 2009

la pasta fatta a mano.






La cucina pugliese ha poggiato da sempre su alcuni elementi cardini quali l’olio, il grano, il vino e le verdure. La cucina dei paesini dell’entroterra foggiano, come quella santagatese, rispecchiava principalmente le condizioni di vita delle persone, infatti era molto povera o meglio semplice ed era costituita da prodotti caserecci e quanto si riusciva a coltivare in lenzuoli di terra, a volte impervii, per il sostentamento della famiglia. Ogni casa aveva la propria scorta di grano e di farina che custodiva nei "cascioni", silos di legno che erano aperti nella parte superiore ed in basso avevano una porticina scorrevole quel tanto da permettere la fuoriuscita di grano o di farina. A che serviva? per fare pane, pasta e dolci fatti in casa! Circolava poca moneta ed era in uso la moda del baratto: un operaio veniva spesso saldato con litri d’olio o sacchi di farina. Un tempo era praticamente impensabile in una famiglia pugliese approvvigionarsi della pasta industriale acquistandola al negozio; oggi invece, sempre più, si impasta solo nelle feste e nelle occasioni. Quale pasta veniva confezionata a casa mia? Orecchiette (recchietelle), lagane, laganelle, fusilli, strascinati, troccoli. Ogni tipo di pasta ha la sua fisionomia precisa: gli strascinati, per esempio, sono rettangoli di pasta che si passano su un tagliere speciale e presentano una faccia rugosa e una liscia; i troccoli, originari del Foggiano, somigliano ai maccheroni alla chitarra abruzzesi e prendono il nome dal bastone che serve per tagliarli. Le celebri orecchiette si fanno con la forza del pollice, imprimendo su un dischetto di pasta una concavità che le fa somigliare a una conchiglietta pronta ad accogliere il sugo. Un ricordo legato alle orecchiette è che a casa mia le mangiavo di formato gigante: a mio padre piacevano grandi perchè accoglievano molto sugo; mentre mia zia le faceva minute, ma posso assicurare che sono gustose entrambi i formati di pasta. Si tratta sempre di pasta a base di semola di grano duro, callosa e robusta, molto saporita. Per condire era tradizionale il ragù fatto con la conserva(concentrato di pomodoro) che raramente era di carne che compariva in tavola solo di domenica e feste comandate; mentre quasi sempre era un sugo preparato con diverse verdure locali: pasta e cime di broccoli; pasta e cavoli; maccheroni e melanzane; pasta e fagioli; pasta e purea di fave; spaghetti e cicoria; pasta e rucola; fiori di zucchine con pasta e pomodoro che da bambino odiavo ed ora pagherei oro per rimangiarle. La più celebre verdura era quella che insaporiva le orecchiette (che oggi si fanno industrialmente e perciò sono molto diffuse in tutta l'Italia) con cime di rapa, acciughe sciolte nell'olio e aglio: un entusiasmante incontro di gusti e di aromi. Mia madre che praticava la campagna spesso riportava altre varietà di verdure selvatiche come i marasciuni (erbette amare che crescono nelle vigne), la cicoria riccia, i finocchietti selvatici, i taddi (i gambi teneri delle piante di zucca); praticamente la pasta si sposava con tutti, proprio come una mignotta! Ci pensate, facevamo la dieta mediterranea senza saperlo e l’avremmo scoperto cinquant’anni dopo; quando resta difficile trovare cibi che non siano trattati con pesticidi dannosi alla salute e mangiare una buona "pasta e fagioli" è divenuta una questione di stato.
Buona vita e buon appetito!
Cordialmente maestrocastello

giovedì 4 giugno 2009

sfogliatella napoletana.




A sfugliatella.

So’ doje sore: ‘a riccia e a frolla.
Miez’a strada, fann’a folla.
Chella riccia è chiù sciarmante:
veste d’oro, ed è croccante,
caura, doce e profumata.
L’ata, 'a frolla, è na pupata.
E’ chiù tonna, e chiù modesta,
ma si’ a guarde, è già na festa!
Quann’e ncontre ncopp’o corso
t’e vulesse magnà a muorze.
E sti ssore accussì belle
sai chi so’? So’ ‘e sfugliatelle!
(vvv.sfogliatella .it)
Camminando per Napoli è facile restare inebriati dal profumo che ci avvolge. E' la sfogliatella, un dolce ricco di tradizione che custodisce al suo interno i segreti di una lontana e magica storia. La sfogliatella è un dolce tipico ed antico dell'intera regione campana che è nato quasi per caso. Come la maggior parte dei dolci della pasticceria napoletana sono nati nei conventi, preparati dalle suore per le feste dei nobili e per procurarsi reddito al mantenimento del convento. Narra la leggenda che in un anno imprecisato del XVII secolo la suora addetta alla cucina si accorse che era avanzata un po’ di semola cotta nel latte. Ebbe l’idea di aggiungere un po’ di frutta secca, zucchero e di limoncello, sistemando la farcia tra due sfoglie ammorbidite con la sugna( strutto), il principale grasso della Costiera amalfitana sino al moderno arrivo dell’olio d’oliva e un po’ di vino bianco; dando al dolce la forma di un cappuccio di monaco.
Questo dolce ebbe un tale successo tanto che la Badessa del monastero volle che venisse preparato e donato ad ogni famiglia del paese e a tutti i benefattori ogni 30 agosto, in occasione della santa fondatrice dell’ordine. I napoletani amano mangiare la sfogliatella rigorosamente calda, appena sfornata: il sapore, se confrontato con quello di una sfogliatella fredda, è incomparabilmente migliore.
Oltre alla sfogliatella classica fatta con pasta sfoglia, detta sfogliatella riccia, si può trovare in commercio una variante fatta con pasta frolla, detta sfogliatella frolla e una variante della sfogliatella riccia ma molto più grande ed allungata, detta sfogliatella a coda d'aragosta.
Buona vita e buon appetito!
maestrocastello.

Sfogliatella riccia
Ingredienti per 6 porzioni:
400 g di Farina tipo 00
250 g di Ricotta,
200 g di Zucchero a velo:
150 g di Semolino:
150 g di Canditi misti
50 g di Zucchero semolato:
170 g di Burro
1 uovo e 2 tuorli
essenza di vaniglia
eannella in polvere
sale q.b.

Sfogliatella frolla

Ingredienti per 6 persone:
300 g si farina
150 g di sugna (strutto)
120 g di zucchero
200 g di semoloino
200 g di ricotta
175 g di zucchero a velo
100 g di cedro e scorzette d'arancia
1 bustina di vaniglia

martedì 2 giugno 2009

Chi semina raccoglie.



Un giorno ebbi l’idea di proporre un gioco ai miei studenti. Consegnai ad ognuno un foglio e chiesi loro di scrivere la lista degli altri compagni, lasciando uno spazio sotto ogni nome. Poi dissi di pensare la cosa più bella che potevano dire su ciascuno dei loro compagni e scriverla. Ci volle tempo per finire tutto il lavoro, ma alla fine tutti completarono e consegnarono il proprio foglio di complimenti. Quel fine settimana lo trascorsi a preparare tanti fogli per quanti alunni avevo e trascrissi per ciascuno tutto ciò che gli altri avevano detto di lui/lei. Il lunedì successivo consegnai ad ogni studente la propria lista. Poco dopo l’intera classe stava sorridendo e sentivo frasi come “Davvero? Non pensavo di contare così tanto!” oppure “ Non credevo di piacere tanto agli altri”. Nessuno parlò più di quei fogli, ma dall’atteggiamento di ciascuno mi accorsi che l’esperimento aveva raggiunto il suo scopo e la classe risultava più unita di prima.
Erano passati molti anni ed un giorno che mi trovavo in metropolitana mi sento chiamare : “Signor maestro, si ricorda di me? Sono Alessandro Palmisano, quinta classe,Salvo D’Acquisto” Ed io celando bene la mia incertezza gli feci: “certo che mi ricordo, ma ne è passato di tempo!”. “Lo sa maestro che l’ho ricordata spesso in questi anni, in famiglia e con qualche amico con cui ancora sono in contatto. Mi piacevano quelle partite di calcio nel campetto delle suore e la cosa più bella è questa” e mentre dice questa frase, porta una mano in una tasca della giacca ed estrae un portafoglio. Aprendo il portafoglio, estrasse con attenzione due pezzi di carta che erano stati ovviamente piegati, aperti e ripiegati molte volte.
Seppi ancora prima di guardare che quei fogli erano quelli in cui, tanti anni prima, io avevo scritto tutti i complimenti che i compagni di classe di Alessandro avevano espresso su di lui. “Come può vedere, li conservo ancora come una reliquia e li porto sempre con me, perché mi danno coraggio per affrontare la vita, proprio come allora. La ringrazio sempre per averlo fatto.” Ebbi un tuffò al cuore per il bel riconoscimento e me ne sentii inorgoglito.” Si ricorda che ero timido e un tantino balbuziente? “ - continuò Alessandro- “Avevo timore di giocare con gli altri e pensavo che non mi accettavano e che mi potessero prendere in giro; ma dopo quella volta è stato bello e importante sapere che ai compagni facevo tenerezza e mi volevano nella squadra di calcio della classe. Avevo finalmente capito che anche io valevo qualcosa ed ero importante per gli altri. E’ stata una bella iniezione di fiducia. L’ho fatto mettere anche nell’album di fotografie delle nozze. Penso che, come me, anche tanti altri l’abbiano conservata questa lista, di alcuni ne ho la certezza!”. Intanto mi erano venuti gli occhi lucidi e faticavo per non darlo a vedere pubblicamente. Ripensando all’episodio penso che il grande merito sia stato di spingere i ragazzi a comunicarsi l’amore che trattenevano dentro e non si comunicavano. Dire alle persone che le amiamo e che sono importanti per noi, che sono speciali e che ci importa di loro è essenziale per vivere meglio. Diciamoglielo prima che sia troppo tardi. L’amore è la linfa della vita. Se lo hai ricevuto, è perché per qualcuno sei importante e c'è almeno una persona di cui ti importa. Ricorda, 'chi semina raccoglie'. Quello che metti nella vita degli altri tornerà a riempire la tua...
cordialmente maestrocastello.