martedì 31 marzo 2009

Trentuno di marzo.


In tempi come i nostri, dove la fantasia non trova casa nemmeno nella mente dei bambini; mi piace ricordare la leggenda di “Marzo e il Pastore” che trovava invece posto in tutti i libri di lettura degli anni sessanta.
“ Si era ai primi di marzo, il mese “pazzo” che ti scatena temporali rovinosi in giornate di sole primaverile e gelate improvvise dopo serate tiepide. Proprio per questa sua aria imprevedibile e dispettosa, marzo disponeva di soli trenta giornate di comando; mentre il tranquillo aprile ne aveva a sua disposizione ben 31 di giornate.
Una mattina un pastore si avviava bel bello al pascolo col suo gregge fatto anche di agnellini appena nati e ancora bisognosi di cure e di calore. Strada facendo, il pastore incontra Marzo chi gli chiese:
- Dove te andrai oggi, pastore, verso valle o salirai sui prati freschi di montagna?
- Andrò a valle, perché l’aria è ancora frasca- rispose il pastore, conoscendo il carattere dispettoso di Marzo.
Appena Marzo si fu allontanato, il pastore prese la strada di montagna; mentre Marzo scatenava un violento temporale al piano, con fulmini e grandine grande come uva. Solo a sera si accorse che il pastore lo aveva ingannato
Il giorno dopo Marzo incontrò di nuovo il pastore col suo gregge e gli chiese:
- Carissimo, dove condurrai oggi le tue pecore?
- Oggi senz’altro andrò in montagna! - rispose l’uomo.
Non appena Marzo si fu allontanato, però, il pastore si diresse verso il mare.
Quel giorno sulla montagna si abbatté un vero nubifragio senza però causare
alcun danno.
Per tutto il mese il furbo pastore riuscì a ingannare il dispettoso Marzo e il suo gregge restò al gran completo; anzi qualche ulteriore nascita lo aveva incrementato.
Giunto al suo ultimo giorno, il trentesimo, Marzo decise di andare dal suo
vicino Aprile e gli raccontò di come quell'accidente di un pastore, un ometto
qualunque, si fosse preso gioco di lui. Doveva vendicarsi… ma aveva bisogno di
un altro giorno. Aprile gliene concesse uno in prestito.
Poi il giorno dopo, quello che avrebbe dovuto essere il 1° aprile ma non lo era
più, Marzo si incontrò, come d'abitudine, col pastore e lo interrogò
ancora su dove stesse andando a pascolare il suo gregge.
- Andrò in montagna- disse il pastore – e questa volta lo farò davvero. Per
tutto il mese ti ho mentito, ma ora che marzo è finito, io non ho più nulla da
temere da te!
Così detto, si incamminò verso la montagna. Nel pomeriggio, una vera tempesta
di pioggia e grandine si abbatté sul pascolo di montagna; molti agnellini si
inzupparono fino alle ossa e morirono. Marzo aveva avuto la sua vendetta!
Da allora il mese di marzo ha avuto sempre 31 giorni , perché da dispettoso qual era non l’ha mai restituito indietro al suo vicino.
Quale morale possiamo trarre dal racconto?
Da bambini i genitori ci hanno insegnato che occorre sempre dire il vero, ma subito dopo aggiungevano anche :”fatti furbo!”.
Un detto popolare suggeriva un’altra verità: “Chi non sa fingere, non sa regnare!”.
Troppi insegnamenti, tutti insieme, ci creavano un po’ di confusione.
Cordialmente, maestrocastello

domenica 29 marzo 2009

Ivano Fossati "Mio fratello che guardi il mondo".

Il male peggiore dell'epoca moderna è l'indifferenza. "Indifferenza, dice Erri DeLuca, non è infischiarsene del mondo, piuttosto un disturbo della percezione per cui non si riesce a distinguere tra realtà e messinscena"(Alzaia). Indifferenza è l'ncapacità di trasformare il mondo fatto solo di noi, della nostra famiglia in un mondo di tutti; l'incapacità di lasciare aperta la porta al resto della comunità, all'ambiente circostante. Indifferenza è la profonda ignoranza che abbiamo dell'altra parte del globo, quella sofferente; indifferenza è non cercare gli strumenti per dare dignità a tutti, al di là della pelle e delle credenze religiose. "Passare oltre" è la tentazione a cui siamo sottoposti quotidianamente. I soli valori che ci rimangono, purtroppo, sono i beni che ci appartengono e la nostra sola preoccupazione è che qualcuno posssa privarcene. "Aiutare i bisognosi" non è solo imperativo religioso, ma sacrosanto dovere civile. Elemosina deriva dal greco eleèo (ho compassione), è un modo per alleviare il proprio senso di colpa e prevede la disparità tra le parti che fa sentire sempre in difetto chi riceve. Donare, invece, è un atto di scambio, in un rapporto di parità e ci si scambia l'amore! Sarei tentato di dirla con la nota reclame: più ami, più ti ricarichi! I poveri hanno la card dei beni di consumo sempre azzerata; ma la loro card dell'amore è carica al massimo. Essi sono in grado di ricambiare con quintalate d'amore sincero!
Dice Kahlil Ibran:" Il desiderio è metà della vita, l'indifferenza è metà della morte".
Imparariamo a donare, ricordando le parole di Fossati: "..se non c'è strada nel cuore degli altri, prima o poi si traccerà."; è la nostra speranza!
Buona visione del video, maestrocastello.
http://www.youtube.com/watch?v=mNwEEaYeomY

giovedì 26 marzo 2009

Cinema Italia.




Il cinema è il più bel regalo che potevano farmi da fanciullo, in anni in cui avevo poche occasioni di trasporto nel mondo della finzione, oltre al gioco ovviamente. Il buio della sala cinematografica come cabina di comando per brevi viaggi in storie illuminate funzionava a meraviglia. Al mio paese esisteva una sola sala cinematografica, denominata appunto Cinema Italia. Quanto tempo ho dedicato a fissare i personaggi dei cartelloni che venivano affissi in piazza per invogliare le mie fantasticherie, pur sapendo che poi non avrei assistito a quelle proiezioni. In tempi in cui mancava perfino il pane, andare al cinema era un lusso per pochi. A volte restavamo all’esterno della sala, accontentandoci di ascoltare solamente il sonoro delle proiezioni; il resto lo faceva la nostra immaginazione. Amavo il cinema al punto di commettere il primo furto della mia vita. Sottrassi in casa le cinquanta lire e andai a vedere “Il conte di Montecristo”. Poteva anche andare meglio la mia prima volta, infatti i sensi di colpa trasformarono quello che doveva essere un divertente pomeriggio in due ore di rimorsi. Mi sarei rifatto di lì a qualche tempo. Nei primi anni del ’60 frequentavo “i pidocchietti”, sale di quart’ordine della periferia romana: erano a basso costo e potevi trattenerti a tuo piacimento. Ricordo che staccavano il biglietto nelle primissime ore del pomeriggio ed uscivamo per la cena, dopo ripetute visioni dello stesso film e con gli occhi gonfi ed annebbiati da fumo passivo. Il cinema neorealistico ha raccontato bene una nazione in ripresa, con attori presi dalla strada, la presa diretta del paesaggio esterno di città e campagne, storie di povera gente costretta a rubare una bicicletta per trovare lavoro. La macchina da presa dei giovani registi documentavano tutto ciò che il fascismo non ammetteva: la miseria, il duro lavoro, il suicidio, la prostituzione; insomma, la documentazione fedele della realtà. Oggi provo fastidio all’ascolto dei diversi notiziari, allora gustavo anche il cinegiornale della settimana Incom che anticipava la visione della pellicola cinematografica. Ho memoria dei primi colossal in Cinema Scope che duravano ore e per me era sempre troppo poco: “I Gladiatori”, “La Tunica”, “Ben Hur”, “Quo Vadis”. Lo schermo cinematografico era la mia macchina del tempo, in grado di regalare sortite in epoche remote; il timone della mia ingenua fantasia. Poi è venuto il cinema di costume, la commedia all’italiana che ha scoperto vizi privati e comuni virtù. Il grande schermo ha registrato sia i progressi economici di un popolo formica che la capacità di mettersi in burletta. Totò e Peppino, Sordi e Manfredi, Tognazzi e Vianello, Gassman e la Vitti sono state le facce diverse degli italiani che non avevano più voglia di guardare al passato; ma anche di sorridere ciascuno dei difetti dell’altro e costruire insieme una coscienza collettiva. Il cinema non ha cambiato il mondo ma è stato lo specchio fedele dei nostri cambiamenti, ha educato con le cose dette ed anche con quelle lasciate alla nostra immaginazione : un fotogramma, una musica o magari uno slogan azzeccato hanno inciso più di un discorso completo. Poi è venuto il cinema impegnato, quello dai contenuti di spessore. Per darci un tono frequentavamo sale di sperimentazione che i più colti chiamano"d'essai." Francamente preferisco il cinema che racconta storie semplici a gente semplice, gente che entra in sala, lasciando i crucci personali al guardaroba; vogliosa solo di due orette di spensieratezza.

martedì 24 marzo 2009

Non ho bisogno di denari.

Alda Merini è, per me, tra gli autori più rappresentativi del panorama poetico dell'ultimo novecento italiano e di questo primo decennio di nuovo millennio . La sua poetica trasuda visionarietà, profondità, inquietudine. Poesia è per lei un tentativo di comunicazione con l’assoluto, di sfida alla divinità, recupero dell’ignoto, discesa negli abissi dell’inconoscibile. “La mia poesia è alacre come il fuoco/trascorre tra le mie dita come un rosario….Sono il poeta che canta e non trova le parole/sono la paglia arida sopra cui batte il suono….. il manto di metallo di una lunga preghiera/del passato cordoglio che non vede la luce” (A.Merini da “La volpe e il sipario”) . La sua affermazione: "la mia vita è più bella della poesia" (cofanetto di Einaudi del 2003) dipinge bene il filo di demarcazione tra due anime di una stessa persona: ora alienata, ora allineata. La Merini gioca a sconfinare da una parte all’altra della staccionata del reale(internata nel ’47 e nel’72) e la poesia l'accompagna in questo alterno percorso, avendo per lei anche funzione terapeutica. Intreccia sentimenti d’amore e di pena, fitta di riferimenti autobiografici, disposta a chiamare in causa, quasi carnalmente, persone definite e concrete. L'alienazione è un valore aggiunto per una poetica che guadagna una visione più lucida, profonda e privilegiata del reale. Davvero palpitante, non trovate? Ma non scordate mai il monito di Alda : “Non cercate di prendere i poeti perché vi scapperanno tra le dita”.
Ho apprezzato subito questa poesia che vi propongo per il suo contenuto che mi riguarda personalmente, per il mio cattivo rapporto col denaro e che dovrebbe portare a noi tutti qualche contributo di riflessione.


NON HO BISOGNO DI DENARI.
Ho bisogno di sentimenti,
di parole, di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri,
di rose dette presenze,
di sogni che abitino gli alberi,
di canzoni che facciano danzare le statue,
di stelle che mormorino all' orecchio degli amanti.
Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

ALDA MERINI

sabato 21 marzo 2009

Primavera a confronto.


Siamo in primavera e non si direbbe. Infatti la stagione fredda di dare il cambio non ne vuol sapere. Da ragazzo, ero fedelissimo al calendario e il giorno esatto di San Benedetto toglievo la canotta, indossavo le canoniche mezze maniche e, puntualmente, mi ritrovavo l'indomani raffreddato e così per tutti gli anni della fanciullezza. Recita l'adagio popolare : "Non ci sono più le stagioni di una volta" e non ci sono (dico io) nemmeno le stesse condizioni. Se fossi primavera e non lo sono, mi rifiuterei di migrare annualmente dalle nostre parti.. Poichè la poesia traghetta bene i sentimenti, ho inteso accostare due situazioni differenti, come i rovesci di una medesima medaglia, scegliendo due giganti della nostra poetica nazionale: Giovanni Papini e Diego Valeri.
A voi lascio le dovute riflessioni.
Con la simpatia di sempre!
maestrocastello.

In città, non è mai primavera di Giovanni Papini.

Le nostre città non sono più coricate sui fioriti letti delle campagne.
Son rinserrate in una spaventosa cerchia di binari e di pali,
di cabine e d'antenne, di capannoni fuliginosi e di casamenti tetri.
Gli alberi intristiscono lungo il bitume degli stradali untuosi,
gli uccelli sono spariti, o se ci sono
il loro canto è vinto dai rombi e dagli ululati delle macchine,
mentre le fragranze dei fiori son sommerse dal puzzo della benzina,
della nafta e del fumo dell'antracite bruciata.
La scoperta della primavera, per gli abitanti delle grosse città, significa
un viaggio sempre più lungo e, molte volte, inutile.

Primavera di Diego Valeri.

Una distesa d'orti. In primo piano,
selvette d'insalata ricciolina,
viali d'aglio, qualche testolina
di fagiolo che spunta a far cucù;
dietro: tappeto di varia verdura
distesi in simmetria, tende pezzate,
molli trapunte, scure, fiocchettate
di verze gialle e cavolfiori blu;
nello sfondo: robinie che la guazza
ha ingioiellate di puri diamanti,
un filare di pioppi palpitanti
e il cielo azzurro... la serenità.

giovedì 19 marzo 2009

Peppedda.

Francamente suonava insolito anche a noi che una donna si chiamasse così; ma era un modo originale di chiamare una persona di sesso femminile che in un altro posto avrebbero chiamato Giuseppa o semplicemente Pina. Comunque quando dicevi Peppedda tutti sapevano di chi stavi parlando. Peppedda gestiva uno spaccio che era esagerato chiamare rivendita di generi alimentari; tanta era l’esiguità di prodotti che esponeva. La rivendita in questione era situata al piano terra della sua abitazione che era ubicata lungo il percorso casa-mare e perciò anche comoda per gli acquisti di quei primi anni di vacanze a Tanaunella. La tappa quasi giornaliera da Peppedda non si svolgeva mai in tempi rapidi, vuoi per la lentezza dell’anziana esercente, vuoi per la nostra curiosità, vuoi per la reciproca voglia di attaccar bottone. Se il negozio poi era affollato da più d’una persona, potevi anche fare notte. Questa donnetta, vero esemplare di donna sarda avanti con gli anni, vestita in modo austero, con l’aria perennemente sofferente, stonava dietro ad un banco di rivendita e quasi si scordava del vero motivo che la vedeva tra pacchi di pasta e scatole di tonno ; tanto era presa a tener conversazione e sempre con tono piuttosto pacato.
L’esercizio era a carattere familiare e collaborava ad organizzare le varie attività commerciali il signor Costa, suo marito, che era dotato di un’ape (automezzo a tre ruote) che gli serviva per trasportare bombole di gas. Ci accorgemmo di lui una volta che chiedemmo dove potevamo acquistare della frutta. E Peppedda ci fece:
- Frutta vi occorre? Abbiamo albicòcche (disse piano e con la o molto stretta); ma non vedevamo in giro l’ombra di una sola albicocca.
Non ci eravamo accorti che aveva fatto un cenno al marito, il signor Costa, che era partito a razzo e presa una scala era salito su d’un albero dell’orto situato proprio alle spalle del negozio ed ora raccoglieva la frutta che sua moglie ci avrebbe venduto poco dopo. Da una finestrella assistemmo increduli a tutta la scena.
Era proprio il caso di dire: dal produttore al consumatore !
Ma il signor Costa lo avremmo conosciuto meglio di lì a qualche giorno, quando, appressandosi il giorno della partenza, chiedemmo a Peppedda se ci indicava un posto dove acquistare vino di proprietà, cioè fatto da privati. Naturalmente ci indicò suo marito e il signor Costa pretese di farci assaggiare prima il suo Cannonau. Il mattino seguente, mentre ci portavamo in spiaggia, pensammo bene di fare una visita a casa sua per l’acquisto del vino e quella visita non l’avremmo poi scordata per un pezzo. Quel basso ometto claudicante ci ricevette in casa sua con tutti gli onori e ci raccontò di sua figlia parrucchiera che esercitava vicino Roma e dopo poco si presentò con quattro bicchieroni con cui solitamente ti servono l’acqua nei bar, colmi fino all’orlo di rosso Cannonau di quindici gradi . Mia moglie del tutto astemia e i figli appena decenni mi facevano ampi cenni disperati di soccorso! Fu così che mi trovai, mio malgrado, a tracannare uno dopo l’altro tutto quel vino ed erano appena le dieci del mattino. Poco dopo, pur trovandoci al fresco di quella casa e non ancora in spiaggia, cominciai ad avvertire un caldo insopportabile. Pensavo al modo di combinare presto per il vino da acquistare e prendere congedo e feci
- Buono questo vino, complimenti!
- Io sono un tifoso del vino – fece il signor Costa che col termine “ tifoso” voleva intendere “appassionato”.
Ma io ostinato, feci una domanda stronza, invece di tagliar corto :
- Producete solo il rosso?
- Maledizione! ……. fece il Costa, balzando letteralmente sulla sedia e in un baleno sparì nuovamente. Al suo ritorno afferrava due bottiglie di bianco e….
- Una ce la bevviamo e una ve la regalo! Disse in tono tassativo.
Insomma si stava ripetendo la scena di poco prima col vino rosso: i bicchieri erano sempre quelli di prima, quattro bicchieri esagerati e si ripetè lo stesso cinematografo. Lui che si girava ed io che approfittavo per dare soccorso a qualche figlio: afferravo rapidamente il suo bicchiere ed al suo posto mettevo il mio che avevo già vuotato. Tracannavo con molta indifferenza, provocando le ilarità dei miei familiari che si divertivano da matti. Quando riuscimmo a prendere congedo ero gonfio come una spugna ed erano appena le dieci e mezza del mattino!
Al mare mi portai subito nell’acqua per cercare un qualche refrigerio, ma avevo movenze di un demente e suscitavo risate incontenibili nei miei che mi ripetevano di continuo :
- Maledizione!…… Io sono un tifoso del vino!…Forse avrò provocato anche la curiosità di quanti, vedendomi allegrotto, avranno pensato che ero un povero scemo che i familiari avevano portato al mare; mica sapevano che ero completamente ciucco, perché avevo in corpo quasi due litri di vino Cannonau ed erano appena le undici del mattino.
Tratto da "Chiuso per ferie" di G.Castello.

lunedì 16 marzo 2009

Siamo tutti emigranti !

Con passo incerto avanza Mario nel parco cittadino, frenato dal ghiaino, dalla vetustà delle sue gambe e da un fastidioso vento che mette gli alberi a soqquadro e rimesta i suoi pensieri già tanto rimestati. Ha come meta una panchina libera che permette anche la visuale di una strada laterale. Come prende posto sulla panca, ne cattura l’attenzione il copricapo del lavavetri di colore che, al semaforo di fronte, tenta disperatamente di convincere gli automobilisti ad accettare le proprie prestazioni. Il pensiero di Mario corre agli anni della sua emigrazione, alla valigia di cartone legata con lo spago, ai mille mestieri intrapresi pur di mandare soldi a casa e a quante umiliazioni ha dovuto sopportare. La sera, pur vinto dalla stanchezza, rimandava ad ora tarda il momento di consumare quel misero panino, per la paura che potesse avere ancora fame. Restava ore al buio, sovrastato dalla nostalgia per la sua famiglia che in Italia aspettava qualche franco svizzero che sua moglie depositava tutti i mesi per comprare l’agognata casa. Il rammarico maggiore era non veder crescere i suoi figli, non poter essere presente proprio quando avevano più bisogno. Finiva sempre che cedeva al sonno, quando aveva terminato tutte le lacrime del giorno. “Italienisc!”, “Maccarone!” “Bastard!” quante umiliazioni! Povero Mario, doveva apparire sempre indifferente per un tozzo di pane che diventava sempre più arduo conquistare. Quasi dieci anni di quell’inferno, di completo isolamento. Già il problema della lingua: il non essere capiti e il non essere accettati. Mai una volta che, entrando in un bar, venisse trattato come un essere umano. Avvertiva sempre un’aria pesante intorno a sé, fino a quando non toglieva il disturbo. “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui e come è duro calle lo scendere e 'l salire pe l'altrui scale” diceva Dante del suo esilio. Quello di Mario era un pane che aveva il sapore degli stenti, delle infinite malinconie, della dignità tante volte calpestata, della sua anima mutilata dall'indifferenza. Intanto che pensava, buttava l'occhio verso il lavavetri che continuava a far inchini, restando inoperoso. Come una saetta, Mario si alza dalla panca e si dirige al di là della strada, proprio in direzione dell'uomo di colore. Quando il semaforo glielo permette, attraversa e si porta dall’altra parte della strada, cavando di tasca una banconota . E’ molto imbarazzato Mario, perché teme di offendere quell’uomo. In fondo, non ha ricevuto nessuna prestazione. Allora sfodera tutto il suo sorriso e...., allungando la mano con la banconota.... : “ Salve amico, fa tanto caldo! Permetti che ti offro qualcosa di fresco da bere...? “ Grazie, fratello! Tu bravo... Tu italiano bravo! Che Allah ti protegga!
Mario si allontana e ora sorride dentro. Si accorge che il suo passo non è più incerto e intanto l’altro non smette di sbracciarsi per riconoscenza. Mentre continua la sua strada, Mario pensa a don Milani, prete-amico di deboli e diseredati :
"Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri".
Da che parte stiamo noi?

venerdì 13 marzo 2009

" Dopo Carosello, tutti a nanna! "







La pubblicità è l’anima del commercio. Gli operatori economici usano questa forma di comunicazione a pagamento per influenzare le scelte degli individui al momento di fare acquisti. I linguaggi utilizzati variano a seconda del mezzo di comunicazione in questione, comunque tutti molto accattivanti. Lo spot è ideato ad arte per convincerti che, solo usando quel prodotto, sei uno che vale veramente, sempre al passo coi tempi; insomma, per dirla con una nota reclame, “un uomo che non deve chiedere mai!”. Ormai la pubblicità ci ha invaso la vita, ci segue ovunque: l’ascolti alla radio, la vedi in tv, la ritrovi nella cassetta della posta, in ascensore, sul parabrezza della macchina, sulla tuta che porti addosso. Spesso ripenso a quando c’era “Carosello” , appena 4 spot di 135 secondi ognuno, per un totale di 9 minuti complessivi al giorno e tutti di divertimento. Dopo Carosello “ tutti a nanna!”. Era il 1957 quando nacque Carosello. I messaggi pubblicitari erano inseriti in un contesto di tipo teatrale: introdotti dall'apertura di un siparietto con accompagnamento di una specie di fanfara. La sera ero sempre ansioso nell’attesa dell’allegra tarantella napoletana che faceva da sigla al divertimento. Ciascun siparietto mostrava in successione 4 panorami celebri italiani: Ponte dei Sospiri (Venezia), Piazza del Campo (Siena), Via Caracciolo (Napoli) e Piazza del Popolo (Roma). Gli attori facevano a gara per entrare in quelle scene, perché capivano che era un modo per farsi conoscere dalla gente. Ubaldo Lay era il tenente Sheridan dell'aperitivo Biancosarti, Cesare Polacco l'ispettore calvo che non ha mai usato la Brillantina Linetti. E poi ancora il loquacissimo Tino Scotti con il confetto Falqui che” basta la parola”, Carlo Dapporto con la sua Pasta del Capitano e il chitarrista Franco Cerri era “l’uomo in ammollo”... Erano tutti molto divertenti, ma francamente preferivo i personaggi dei cartoni che hanno fatto epoca e stuzzicavano la mia fantasia bambina: Calimero, Il gigante buono, Jo Condor, Gatto Silvestro, Il caballero misterioso, l’Ancillotto, El Dindondero. Ricordo che gustavo ogni storiella e quando terminava, mi dicevo che era stata troppo breve! Quante frasi legate ai personaggi di uno spot che sono poi entrate nel gergo quotidiano. "pitupitum ...paaah!” , "Oh no, su DeRica non si può!”, “Gigante, pensaci tuuuu!!!!!... ,” E che, c'ho scritto Jo Condor?”, “Ava, come lava!” , “Cimabue, Cimabue, fai una cosa ne sbagli due”, “Miguel son mì!”. Il personaggio che faceva tenerezza? Calimero, naturalmente! : “Che ingiustizia! Ce l’hanno tutti con me, perché sono piccolo e nero!..” e quella che trovavo più geniale era “la linea” che rese popolare il marchio Lagostina : il personaggio era costruito sulla stessa linea della terra su cui camminava e il disegnatore gli creava via via le situazioni e gli oggetti con cui doveva confrontarsi. Un racconto tale oggi potrà suscitare ilarità, ma per noi bambini di quegli anni erano questi i primissimi cartoni sulla piazza. E siccome “dopo Carosello tutti a nanna!”, questi personaggi li ritrovavo spesso nei miei sogni. Ero solito essere inseguito da personaggi oscuri e, proprio in procinto di cadere da precipizi spaventosi, sapete chi arrivava sempre in mio soccorso? Il gigante Buono, naturalmente! Quei siparietti non ci sono più, appartengono ormai al tempo della mia anima bambina che era ancora capace di sognare. Di quel tempo non ho rimpianti di altre cose, se non di quella sana ingenuità che più non ci appartiene.

mercoledì 11 marzo 2009

" Domenica è sempre domenica....."

La televisione italiana nacque il 3 gennaio 1954. Venne pensata non solo come occasione di intrattenimento, ma anche come strumento di educazione e informazione. Infatti si pensò, non a torto, ch’essa potesse aiutare a combattere l’ignoranza derivante dal diffuso analfabetismo che in quegli anni imperava nel nostro paese e contribuire a creare una lingua nazionale molto più di quanto fosse in grado di fare la scuola. La tv venne concepita come un “teatro domestico”; infatti la prosa aveva molto spazio con attori del calibro di Giorgio Albertazzi, Ernesto Calindri, Gilberto Covi, Isa Barzizza. Le prime trasmissioni furono sperimentali e solo nel ‘57 iniziarono regolarmente in tutto il territorio italiano. Ricordo come fosse ora, quando fu la prima volta anche a Sant’agata di Puglia, mio comune di nascita. Fu situato un apparecchio proprio nella piazza del paese, in cima ad un balcone, sulla testa di una folla che era in preda allo sbigottimento. Spesso ho associato quel nostro atteggiamento a quello che dovettero avere gli indiani d’America, allorché videro gli specchietti offerti in dono da Colombo. Inizialmente solo i più abbienti possedevano un televisore che mettevano in bella mostra e foderavano di stoffa a fiori, con siparietto apribile davanti. Infatti, in quegli scalcagnati anni cinquanta, due cose mostravano orgogliose le massaie: la bambola sul letto ben rifatto e, chi ce l’aveva, “la televione”. Trasmetteva solo un canale RAI e per poche ore al giorno. Alle undici di sera suonava una musichetta che accompagnava la fine delle trasmissioni. La sera del sabato l’appuntamento fisso era “il musichiere” con Mario Riva e le famiglie si riversavano nei circoli sociali, in casa di conoscenti o in bar che si riempivano di persone che cantavano allegramente: “Domenica è sempre domenica!”. Poi fu la volta di Mike Buongiorno e del suo “Lascia o raddoppia” che sarebbe stato un tormentone. Negli anni sessanta con il progresso dell'economia, il televisore divenne accessorio di sempre maggior diffusione, sino a raggiungere anche classi sociali meno agiate; l'elevato tasso di analfabetismo riscontrato fra queste suggerì la messa in onda di “Non è mai troppo tardi” ; un programma di insegnamento elementare condotto dal maestro Alberto Manzi e che, è stato stimato, avrebbe aiutato quasi un milione e mezzo di adulti a conseguire la licenza elementare. Quante storie televisive hanno catturato la mia fantasia di bambino: “Canne al vento”, “Cuore”, “L’isola del tesoro”, “Marcellino pane e vino” . Allora la tv era in bianco e nero; ma i miei sogni erano già tutti a colore!

domenica 8 marzo 2009

Le donne sono stufe di commemorare!

Oggi 8 marzo, Giornata Internazionale delle Donna, più conosciuta come "Festa della Donna", è un giorno di celebrazione per le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne. Negli anni ’60 era una giornata di lotta, specialmente nell’ambito delle associazioni femministe: il simbolo delle vessazioni che la donna ha dovuto subire nel corso dei secoli. Col passare degli anni il vero significato di questa ricorrenza è andato sfumando ed ha assunto connotati di carattere commerciale, facendo sì che molte stesse donne sono ormai stufe di una retorica commemorazione. Ha ancora senso festeggiare? Può bastare regalare una volta l’anno rami di mimosa per gratificare una donna? O una cena tutta al femminile e il gusto di vedere il maschio che si spoglia? I pareri sono discordi e personalmente sonno dell’idea che dobbiamo almeno approfittare di questa occasione per fare alcune riflessioni. Indubbiamente negli ultimi decenni le donne hanno fatto molte conquiste. Si pensi che fino al primo febbraio del ’45 le donne italiane non avevano ancora il diritto al voto! La storia ci insegna che la donna ha sempre avuto un ruolo marginale in ogni società passata. Presso gli Egizi, i Faraoni venivano raffigurati con statue gigantesche, mentre la miniatura che gli stava accanto era la sua consorte; tanto per farvi capire che importanza aveva. La religione poi parla tutto al maschile: pensate al ruolo della donna nel mondo islamico o nella storia del cattolicesimo che prevede per la donna solo ruoli subalterni ( la perpetua, la badante, la pia donna, la suorina o la dama di carità). La nostra educazione è stata tutta pervasa da insegnamenti che differenziavano nettamente i ruoli dei due sessi dentro le famiglie. Ricordo che veniva proibito ai maschi di svolgere compiti ritenuti prettamente femminili e si veniva derisi anche dagli stessi familiari. A casa mia che eravamo un esercito di maschi, mia madre se ne fotteva delle chiacchiere: tutti rifacevamo ogni giorno il letto e sbrigavamo le faccende della casa. Per fortuna le nuove generazioni sono più propense a dividere con la donna i lavori all’interno della casa. Oggi vedi giovani che stirano, cucinano, che sanno caricare una lavatrice. Questo aiuto vale più della mimosa, specie oggi che la donna è chiamata fuori casa per far quadrare il bilancio familiare. E’ di questi giorni la polemica sulla proposta del pensionamento femminile ai 65 anni, per uniformarci all’Europa! A chi fa paragoni con altri paesi tipo Francia o Spagna deve sapere che in quei paesi esistono delle agevolazioni che qui nemmeno ci sogniamo per le donne che hanno figli. Una donna in Spagna può rimanere a casa ad accudire il figlio fino alla scuola dell'obbligo, il suo posto di lavoro gli verrà ridato per legge e usufruisce di assegni familiari cospicui. Non parliamo poi della Francia che sussidia ogni bambino nato fino alla maggiore età. Ora questo cosa vuol dire? Che lì le donne/mamme non hanno bisogno delle nonne/baby sitter come qui da noi che non abbiamo asili nido sufficienti. Per non parlare poi della assoluta mancanza di assistenza materiale ed economica agli anziani e ai disabili che ovviamente ricade sulle donne di mezza età. Tante donne di 60 anni oltre a lavorare devono accudire il padre malato o la suocera anziana. In Italia siamo ancora indietro a tanti altri paesi sui diritti alle donne: non esiste un leader politico donna, nello stesso parlamento la percentuale di rappresentanza femminile è ridicola; tante cariche pubbliche importanti sono, di fatto, precluse ad una donna. Cosa può fare lo Stato per le donne? Tanto! Fare delle leggi serie di sostegno alle famiglie in cui ci sono donne che lavorano: più asili nido nei quartieri, più tempo pieno nelle scuole (invece di tagliare), più permessi per assistere un minore, più assegni di mantenimento, più garanzie di conservazione del posto di lavoro; invece di penalizzarle ulteriormente, procrastinando il tempo del meritato riposo. Va bene che le donne sono più longeve, ma non sono indistruttibili! Dico alla politica che per la donna è stupro tanto la violenza dello sconosciuto, quanto la retorica di Stato. Una donna che lavora fa, di media, due-tre lavori contemporaneamente e voi la premiate, mandandola in pensione a 65 anni? Non è così che si difendono le donne.

giovedì 5 marzo 2009

Che maestro sono stato?..............parte seconda.

L’ora della colazione.
Le cinque classi delle elementari non le ho frequentate tutte in un edificio regolare, come avviene normalmente. Mi è capitato anche di frequentare un paio di classi in case private che il Comune del mio paese prendeva in affitto, per ovviare alla carenza delle aule. In "seconda" avevamo per scuola una casetta con due stanze, situate su due piani e collegate da una ripida scala di legno, tutta tarlata, che noi chiamavamo “scalone”. Quei locali avevano come impianto di riscaldamento una misera stufa a legna, solo al piano superiore, che riscaldava poco e male. Non essendoci molto spazio, non esisteva una cattedra per il maestro che stazionava perennemente col culo appiccicato alla stufetta; mentre noi eravamo nel locale sottostante. Chi provvedeva al buon funzionamento della stufa? Noi, naturalmente! Tre-quattro alunni, a turno, avevamo l’incarico di arrivare mezz’ora prima che cominciassero le lezioni, provvisti di qualche ciocco di legna che portavamo da casa e provvedevamo all’accensione della stufa che doveva essere pronta per l’arrivo del signor maestro. Al suo arrivo, il maestro si toglieva i guanti di lana grigia, ispezionava l’intensità della fiamma, si fregava le mani ed estraeva dalla sua cartella marrone un immancabile involucro di carta oleata che depositava sulla stufa; quindi ci spediva tutti nel locale sottostante. Uno di noi aveva l’incarico di capoclasse. Eri scelto quasi mai per meriti scolastici, ma per tutt’altro: perché eri un conoscente del maestro, figlio di genitore "in vista" del paese o perché avevi la possibilità di portargli dei regali. Il maestro passava la mattinata a sfogliar delle riviste e scendeva nell’aula inferiore solo per dettare il compito che noi eseguivamo sotto la stretta sorveglianza del capoclasse-spia. I banchi avevano un foro rotondo sul pianale per accogliere un calamaio di vetro o di plastica che il bidello provvedeva a riempire periodicamente di inchiostro nero. Era sempre un teatrino quando tiravamo fuori le penne e provavamo, sulla carta assorbente, i pennini che si spuntavano facilmente. Alcuni avevano un osso di seppia e vi sfregavano contro il pennino che ritornava come nuovo. Tanti di noi avevano geloni nelle mani e facevano fatica ad usar subito la penna ed anche chi non li aveva, ne era impedito dal troppo freddo. Il guaio dei pennini era che facilmente macchiavano i quaderni, con notevole disappunto del maestro e per lui, anche se perfetto, un compito macchiato era come una fedina penale sporca! Quando eravamo finalmente intenti a compitare, dal piano superiore, prima sottile e poi sempre più pressante, arrivava un profumo di pane caldo con ripieno di salsiccia che il maestro stava facendo rosolare bene al calore della stufa. In quei momenti puoi misurare tutta la resistenza di un uomo! Ed io che ero poco più che un bimbo, spesso ho rischiato di svenire. E non parlo per il freddo, ma proprio per la fame! Puntualmente alzavo gli occhi allo scalone e pensavo deciso: “da grande farò il maestro elementare!”. E quando riteneva caldo al punto giusto il desinare, l’emerito insegnante, da sopra sentenziava : “ E’ ora della colazione!”. Era una vera provocazione per gente come noi che si puzzava dalla fame. Chi ce l’aveva, cavava dalla cartella un frutto, un pezzo di pane battezzato con l'olio o qualche noce ed il gioco era fatto! Tanti, invece, attaccavano subito a giocare per non pensare ed esorcizzavano così la fame che si aggirava maligna tra i nostri banchi.

mercoledì 4 marzo 2009

Francia - Italia (mondiali 1998)........ 8 luglio.

Sulla riva del mare hanno dato da mangiare ad un bambino che avrà avuto due anni. Un pane troppo grande per un bimbo così piccino!
Intanto la febbre del pallone ha decimato dalla spiaggia quasi tutti i bagnanti di sesso maschile, ma non ha rapito anche me che ammiro estasiato quel piccolino che continua imperterrito ad attaccare il suo grande pane.
Siamo tutti davanti a quello stesso mare che io divoro a pezzetti, proprio come fa il bimbo col suo pane, davanti a questo mare stupendo nelle sue mille sfumature di verde : più chiaro alla riva e sempre più marcato quando prende il largo; fino ad incupirsi del tutto quando incontra la linea dell’orizzonte.
Le donne dalla spiaggia sono sempre in attesa dell’urlo liberatorio dei mariti che non arriverà mai, mentre io sono disteso sulla riva e mi lascio lambire da un’onda troppo regolare e troppo stanca; desideroso che il suo ritmo mi svuoti gradualmente, fino a farmi scordare di me stesso.
L’urlo dei patiti del pallone non arriva e un’onda galeotta mi sommerge completamente, consegnandomi al mare.
Il bimbo?..... L’ha avuta finalmente vinta sul suo pane!
La partita si è risolta male ai calci di rigore e gli uomini ritornano delusi verso il mare, a sfogare in acqua tutta la collera del momento ed io che sono sempre in cerca di nuove forme di emozione, ripongo in una grossa sacca avanzi di giornata e la speranza di ritrovar me stesso.
Intanto il sole, ancora discretamente caldo, guarda noi tutti e ride come un matto!
Tratto da "Chiuso per ferie" di G.Castello.

lunedì 2 marzo 2009

"Valore" di Erri De Luca.


Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.

Considero valore il regno minerale, l'assemblea delle stelle.

Considero valore il vino finchè dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di
chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano.

Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale
ancora poco.

Considero valore tutte le ferite.

Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo,
accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza
ricordare di che.

Considero valore sapere in una stanza dov'è il nord, qual è il nome del vento che sta
asciugando il bucato.

Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del
condannato, qualunque colpa sia.

Considero valore l'uso del verbo amare e l'ipotesi che esista un creatore.

Molti di questi valori non ho conosciuto.

Erri De Luca

(Opera sull'acqua ed altre poesie, Torino, Einaudi, 2002, p.35)

Avevo piacere di far conoscere Erri De Luca, scrittore-poeta napoletano, peraltro mio coetaneo , che avevo notato nelle “Invasioni barbariche” della talentosa Daria Bignardi di qualche anno addietro. Mi aveva colpito la sua storia di poeta-operaio e il modo semplice e diretto di comunicare idee e sensazioni. Oltre ad ammirare il suo impegno civile e sociale, successivamente, ho potuto apprezzare in lui lo scrittore e poeta dal tratto inconfondibile per la sua profondità ,chiarezza, musicalità e modernità dei temi affrontati. Poiché abbiamo avviato, ultimamente, la nostra riflessione sul tema dei valori; volevo far conoscere a quanti non l’avessero ancora letta la composizione poetica di Erri De Luca “Valore”, per proporre spunti di approfondimento sull’argomento.
Con stima e simpatia maestrocastello!

domenica 1 marzo 2009

19 luglio. Il nuoto.

Nuotare è come un tentativo di riappropriarsi del grembo materno. Stare in un grande sito come il mare, ti permette di vagare in uno stato di grande abbandono che non ha pari.
Dice il poeta: “… immergersi nell’acqua è come immergersi nell’infinito…”, è come lanciarsi in una dimensione surreale alla ricerca di un illusorio orizzonte che libera la mente dagli assilli del reale, dove, sospinto da un corpo divenuto magicamente leggero, sei finalmente alla ricerca di te stesso e della tua vera identità.
Il mare è un palcoscenico incredibile, in cui capita di tutto e gli fa da proscenio ideale la spiaggia, da cui parenti suggeritori danno consigli agli attori-bagnanti che si esibiscono nell’acqua. Vedi bambini dapprima letteralmente impazziti per il divertimento che procura loro giocare con l'acqua, diventare poi tristi; perché puntualmente imbeccati dagli adulti, quasi sempre imperiosi che scaricano su di essi le proprie ansie mal represse. Altri, a bordo dei grandi, vivono invece più serenamente le prime esperienze con l’acqua. Ragazzotti maggiormente spavaldi sfoderano i vari stili di nuoto, per catturare l’attenzione di maschiette finte-distratte. C’è pure chi è da mezz’ora nell’acqua, sempre all’impiedi, e ritarda all'infinito il momento del tuffo, nel timore di essere osservato. Certi, non più giovani, giocano a fare i ragazzi, improvvisando tuffi e capriole e si divertono da matti. E che dire di quelli che, armati di maschere nuove di zecca, esplorano fondali troppo bassi; suscitando le risate degli astanti? C’è pure chi amoreggia nuotando e chi si diverte da un’ora rincorrendo semplicemente una palla. Il mare accoglie tutti noi e forse anche lui se la ride come un matto.
Tratto da "Chiuso per ferie" di G.Castello